Forse l’imbarazzo

— Studi all’Accademia? — le gridai nell’orecchio per via della ressa.

— Come fai a saperlo?

— Non lo so.

— Te l’ha detto qualcuno?

— Non ne avevo idea, l’ho capito perché hai quella faccia lì — mentii.

— Che faccia? — chiese, alzando ancora il tono.

— Di quelli che fanno l’Accademia.

Non sembrò soddisfatta della risposta perché si girò dall’altra parte controllando se intorno ci fosse qualcuno che conosceva, ma dopo aver visto che erano tutti sconosciuti mi diede un buffetto sulla spalla e disse — C’è troppa gente dentro, andiamo a fumare una cicca?

— Se vuoi ti accompagno, ma ho smesso — risposi.

— Davvero? Per me sarebbe impossibile.

— Anche per me.

Sorrise.

 

Il Fuoritema aveva un’unica uscita e per come era posizionato, nei vicoletti scoscesi di Urbino, chiunque volesse prendersi una pausa lì fuori doveva starsene in piedi in un saliscendi fatto di riposizionamenti per evitare displasie dell’anca, o semplici perdite di equilibrio, se aveva bevuto troppo; come Lucrezia, che spostando il peso da una gamba all’altra bruciò le tappe con la testa sul mio petto.

— Sono stanca — disse, con una vocina morbida.

— Vedo.

— Mi accompagni a casa? Abito nel Giro dei Debitori e non voglio arrivare fin là da sola.

— Ma prima eri con qualcuno?

— Eravamo uscite insieme, ma è da quando mi sono messa a parlare con te che non le vedo più, le mie amiche.

 

Il Giro dei Debitori è una strada che nasce fuori dalle mura e procede sempre più verso il basso, fino ad arrivare fuori città, ma Lucrezia mi aveva detto di abitare vicino all’Accademia, quindi all’inizio di tutto. L’ostacolo peggiore fu via Raffaello, una parete di sampietrini in salita grande come il Monte Bianco che copriva tutto, il cielo, lo spazio e l’aria. Io ero una formica. Allora pensai che le difficoltà del procedere verso casa di Lucrezia non dipendessero dalle mie gambe o dalla stanchezza, si trattava di un gesto sbagliato, ecco perché avevo il fiato corto e la testa pesante.

 

Ma l’appartamento sembrava carino e lei si era animata come se ci trovassimo in mezzo a una festa, così accettai la canna dalle sue dita e dopo qualche respiro di fumo dolce, alzandomi, dissi — Sarà ora che torni indietro — e lei tirò indietro la testa con un piccolo colpo di tosse, si fece seria e — Perché? — chiese, — La mia ragazza è incinta — risposi staccando lo sguardo, per un attimo, poi mi girai di nuovo curioso di vedere la sua reazione. Rideva, scandalizzata, senza pretendere una risposta, ma io ci provai lo stesso a spiegarle che mi sentivo solo come un cieco da quando era cominciata l’università, due mesi prima, che non ero mai stato con una ragazza e che ero arrivato a Urbino con una valigia da disfare e un bacio di mia madre sulla fronte, nient’altro, e proprio non me la sentivo di farci qualcosa così, dal niente, avrei preferito conoscerla, andarci a camminare in Fortezza o altre stronzate del genere ma non ci riuscivo, a spiegarmi, balbettavo cose sconnesse che non lasciavano intendere nulla e suonavano finte, mal costruite.

— Torniamo allora — disse Lucrezia.

— Scusa se ti ho fatto perdere tempo.

— Fa lo stesso — rispose, delicata, poi proseguì — Come si chiama la tua ragazza?

— Isabella — inventai.

— Isabella, — riprese, — Isabella è fortunata.

— Non lo è.

— Sei una brava persona, certo, anche un po’ strano ma…

— Come fai a dirlo? Mica ci conosciamo.

— E che differenza fa? Scavando a fondo il peggio lo si trova in tutti, è così che funziona. Ti ho conosciuto stasera e credo tu lo sia, a meno che un giorno non ucciderai qualcuno e io dirò “Lo conoscevo, salutava sempre” questa è l’unica cosa importante. Arrivati a casa mia potevi tradirla, Isabella, io non so nemmeno che faccia abbia e se tu avessi insistito, anche dopo avermelo detto intendo, ci sarei stata lo stesso.

— Ma…

— Fammi finire. Pensi che a me sarebbe cambiato niente? So che sembra uno di quei discorsi che vengono fuori quando si è fatti come una zucchina di pollo o ubriachi, ma siamo quello che facciamo, nient’altro. Le possibilità, i “se”, i “ma” e i “forse” contano come una mosca sul pavimento.

— L’unica cosa importante è l’apparenza?

— Per molte persone è così — rispose, e da come lo disse si capiva che era qualcosa per cui aveva sofferto.

— Siamo quello che facciamo — ripetei, e mi sentii in colpa per averle mentito.

Una volta usciti cominciammo a ricalcare in silenzio i passi che ci eravamo lasciati alle spalle, ma in via Raffaello cominciò di nuovo a ridacchiare.

— Sei ubriaca — dissi per mascherare il mio stato d’animo.

— Abbiamo anche fumato

Forse voleva fare lo stesso con il suo.

— Hai ragione — risposi, — Scommetto che in equilibrio su una gamba sola però non riesci a starci.

— E se ce la faccio?

— Vinci tu.

Ma non ci riusciva, invece di allargare le braccia per cercare una posizione stabile stringeva i gomiti contro le costole e il ginocchio verso il petto, se le avessi scattato una fotografia nell’unico istante in cui stava ferma sarebbe sembrata un fenicottero, oppure una gru. E più perdeva l’equilibrio più rideva, e il suono della sua risata rimbalzava contro le case fino a perdersi in fondo alla discesa, all’inizio di via Raffaello. Non sono un appassionato di animali, non mi piace quasi niente in realtà, è che quando sono a lezione leggo qualsiasi cosa capiti sotto tiro, libri, scritte sui banchi, articoletti da poco. Ho scoperto in uno di questi che le gru si addormentano con una gamba alzata per regolare la temperatura corporea, lo fanno istintivamente, nello stesso modo in cui io avevo capito, all’improvviso, perché Lucrezia stesse ridendo e non sembrava volersi fermare.

— Devo dirti una cosa, — avvicinandomi.

— Te l’eri inventato?

Esitai.

Un racconto di Nicolò Locatelli

Illustrazione di Maria Sciannimanico

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