Cara Alice

Cara Alice,

ho aspettato molto per scriverti questa lettera, ho sperato che qualcuno mi trovasse, che mi venissero a prendere, mi salvassero e mi riportassero indietro. Ho guardato l’orizzonte fino a che il luccichio del sole sul mare mi ha accecato, ho razionalizzato le scorte di cibo e acqua, ma non credo che dureranno ancora più di qualche giorno, nonostante i miei sforzi di resistere. Ho provato in tutti i modi a far funzionare la radio, ma quando le onde mi hanno sbattuto sulla costa di questo isolotto di cui non riesco neanche a calcolare la posizione nell’oceano, tutti i miei strumenti sono andati distrutti.

Ma ho una cosa da dirti, Alice, e non posso fare altro che affidare le mie parole a una bottiglia e sperare che ti raggiunga. Come in quell’articolo che avevamo letto il giorno in cui ci siamo conosciuti, quel messaggio in bottiglia che era partito dalla Turchia e aveva vagato nel mare per quasi un secolo prima di essere trovato da un pescatore, a pochi metri da una spiaggia della Grecia.

Se qualcuno ha qualcosa da dirti il modo di farlo lo trova sempre, mi avevi fatto notare, con quel brillio negli occhi che nei nostri appuntamenti seguenti avevo imparato a distinguere, quel misto di sogno e fiducia che si accendeva ogni volta che c’era una storia romantica nell’aria.

E io voglio farti brillare gli occhi ancora.

Ho fatto tante copie di questa lettera e vorrei avere tante bottiglie a disposizione, vorrei usare tutte quelle che formano l’isola di plastica nell’oceano Pacifico per metterci dentro tutte le parole che non ho fatto in tempo a dirti, almeno 80 mila tonnellate di inquinamento servirebbero a qualcosa.

Questa traversata era il sogno della mia vita: da solo, io, la mia barca e l’oceano. La terra vista dall’acqua è molto più bella, ti avevo detto, e tu, te lo ricordi?, mi avevi risposto che probabilmente avevo ragione, ma era l’acqua vista dall’acqua il problema.

Ti avevo promesso che ti avrei insegnato a nuotare.  Ti ho preso in giro, lo farei anche adesso se potessi, e mentre ti mostravo i movimenti guardavo il tuo corpo che si scuoteva leggermente per il nervosismo ogni volta che sentiva la parola acqua, allora ti stringevo fino a che non ti rilassavi.

Anche le mie mani ora tremano a guardare le onde, al pensiero che a tutti i costi mi risbatteranno su quest’isola, tenendomi lontano da te, tenendo lontane le parole che ho per te. Come hanno fatto durante la tempesta: la barca oscillava così forte che mi sembrava di avere la febbre, come quando ti gira la testa e la forza di gravità sembra troppo forte per farti stare in piedi. Ma non era la mia testa a girare. L’acqua mi è arrivata addosso con la violenza di una doccia ghiacciata, non capivo se fosse pioggia o mare perché gli schizzi mi colpivano da ogni parte, onde alte che mi facevano perdere l’equilibrio e animali giganteschi che salivano e scendevano troppo vicini a me. Quando è arrivato il primo colpo, la barca ha avuto uno scossone, mi sono aggrappato per non cadere in acqua. Le mie dita stridevano sulla superficie scivolosa. Poi è arrivata un’altra onda, più alta di me, che mi si è inarcata sopra la testa e poi è precipitata, un muro freddo e pesante che mi ha tolto il fiato.

Una distesa d’acqua pronta a inghiottirmi e nessun pezzo di terra a cui aggrapparmi.

Solo acqua, vista dall’acqua.

Non fa paura tutto quel vuoto? Mi avevi chiesto una volta, mentre ti mostravo il percorso della mia traversata. Sì, Alice, fa paura. Fa così tanta paura che ti metti a urlare anche se sai che nessuno ti può sentire, così tanta paura che tremi anche se il tuo corpo non percepisce più il freddo, così tanta paura che maledici i tuoi sogni, te stesso, e piangi senza riuscire più a distinguere le tue lacrime.

A un certo punto ho sentito un rumore fortissimo, poi, più nulla.

Mi sono risvegliato qui, impiastricciato di sabbia e con i vestiti lacerati, la barca distrutta a pochi metri da me. Morirò qui, Alice, cotto dal caldo e dal sole di un’isola di cui non riesco nemmeno a calcolare la posizione nell’oceano, sfinito dalla fame e dalla fatica, accompagnato nello stomaco dallo stesso vuoto che ho sentito durante la tempesta e da cui, forse, avevi provato a mettermi in guardia.

Ti avevo promesso che ti avrei tenuta sempre con me, Alice, e i tuoi occhi avevano luccicato, come luccica ora il mare, davanti a me, e la mia vista si fa bianca, vuota e inutile.

Ma anche se non posso più vederti c’è una cosa che devi sapere, e quando vuoi chiedere qualcosa a qualcuno il modo lo trovi, come hai sempre detto tu.

Per questo adesso sono qui, circondato da tutte le bottiglie che sono riuscito a recuperare da quello che resta della mia barca, e vorrei che fossero ottantamila tonnellate di plastica, invece sono solo centodue misere bottigliette.

Ho sempre lottato contro l’inquinamento, ma l’ambiente mi perdonerà per quello che sto per fare.

Chiudo gli occhi e immagino il tuo viso, magari tra qualche anno, immagino il momento in cui andrai al porto da cui sono partito ad aspettarmi ancora, ti immagino passeggiare sulla spiaggia e sentire contro la caviglia qualcosa che attira la tua attenzione. Ti immagino prendere una di queste centodue bottiglie e scoprire che è una lettera per te e ti immagino riempirti ancora di sogno e fiducia con quello sguardo che ho imparato a distinguere.

Perché il mio modo funzionerà, ne sono certo, e io voglio farti brillare gli occhi ancora, per un’ultima volta.

Dovunque tu sia, in qualunque modo una di queste centodue bottiglie sia riuscita a trovarti, Alice, mi vuoi sposare?

Illustrazione di Angelo Policicchio

Sissi Decorato

Sissi nasce, cresce e si laurea a Milano. Poi cambia idea e si trasferisce a Torino. Ama fare piani per il suo futuro e farli saltare; parlare di Dickens e leggere Sophie Kinsella di nascosto; i vestiti eleganti, ma solo se abbinati a scarpe eccentriche.

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