Verin_Luca Bianco

Deserti

In ventidue anni ho messo da parte qualcosa come 560 dollari americani. O almeno, questo è quanto mi ha dato l’intermediario. Credevo fossero di più, ma ha detto che mi dovevo accontentare. Siamo sempre stati poveri. Quanto poveri, lo capisco solo ora.

Papà è morto che avevo cinque anni. Gestiva un negozio di attrezzi agricoli, praticamente a cielo aperto, quando tre ragazzi gli spararono in testa perché siamo Nuer. Ricordo che piansi poco.

Da allora ci siamo spaccati la schiena tutti i giorni nei campi, per mettere insieme qualcosa che permettesse a uno di noi di andare in Europa. Quindi due anni fa abbiamo deciso che dovevo partire. Mamma, a quarant’anni, voleva sapermi in Francia, in Inghilterra o in Germania, prima di pensare a morire e mandarmi i fratelli.

Ci volevano dai 2000 ai 3000 dollari americani. L’Uganda sarebbe stato molto più economico, ma per me non ne valeva la pena. Europa o niente. È impossibile tirar su così tanti soldi arando il deserto.

Credo che li rivedrò.

 

La sabbia è umida, ma ancora tiepida per via del calore infernale accumulato durante il giorno. Il mare è nero come gli occhi di mia sorella, e altrettanto bello. Siamo una quarantina, nascosti in mezzo ai relitti lasciati a marcire. Oggi finalmente tocca a noi.

Sono a Zwara da tredici mesi, in mano a qualche milizia libica. Non so bene quale. Milizie, terroristi, trafficanti, polizia; cambiano faccia ogni giorno, ma sono sempre gli stessi.

Non sto certo meglio che a casa, ma neanche peggio. Ho lividi e tagli un po’ su tutto il corpo, picchio e vengo picchiato quasi tutti i giorni, non vedo la stessa persona per due settimane di fila, mangio raramente e bevo acqua sporca. Peso venti chili in meno di quando sono partito, non tocco una donna da due anni, e vivo in mezzo agli stupri. In questo modo, sono vivo. Mi manca la mia famiglia, non so se loro ci sono ancora per poter dire lo stesso.

Devo scavare fosse nella sabbia per seppellire gente come me.

Non scaverò mai a sufficienza.

 

Arrivare a Khartoum è stato facile, però poi non avevo abbastanza soldi per andare avanti. Ho chiesto al mio intermediario cosa potevo fare e lui mi ha detto di arrangiarmi. E alla svelta, altrimenti mi avrebbe venduto.

Non c’è mai tempo o ce n’è troppo.

Ho trovato una baraccopoli, ho chiesto un po’ in giro, ho preso un sacco di botte; poi, siccome ero forte e incassavo bene, mi hanno mandato in giro a riscuotere debiti e tangenti per i soldati. Non sempre mi pagavano. Non ho mai pianto, non mi sono fermato a pensare a cosa facevo. Non avrei avuto la forza e il coraggio di tornarmene a casa. Meglio che la mia famiglia mi credesse a Parigi, oppure morto.

È difficile non pensare.

Dopo cinque mesi l’intero corpo mi faceva male, non avevo più forze, ma i soldi per proseguire sì. Mi hanno caricato sul retro di un pickup, fatto sedere sulla lamiera rovente e stipato insieme a troppi corpi, diretto in Libia. Sudavamo tanto da incollarci alla carrozzeria.

Quando ci hanno fatti scendere, avevo le gambe paralizzate. Mi hanno spinto con il calcio di un kalashnikov e sono caduto a faccia in giù nella sabbia infuocata. Poi il pickup ha fatto inversione e se n’è tornato da dove era venuto. Abbiamo aspettato tutta la notte, poi è arrivato un altro pickup, messo peggio del primo, con un libico che parlava un dialetto arabo che capivo a malapena. Siamo saliti e abbiamo percorso altri duemila chilometri di deserto.

Non ne potevo più della sabbia e del sole, del sudore, della bocca riarsa, della polvere nei vestiti e sulle palpebre. Ero circondato da un giallo accecante e non vedevo nulla.

Non c’era nulla.

 

A Zwara ho visto il mare. In Sudan c’erano solo foto o video. Un deserto blu, dicevano. Ma non è vero. Il mare è vivo e respira, mentre il deserto è un morto che ti accompagna per tutta la vita, ti soffoca col suo fiato nauseabondo.

Mar Mediterraneo. Suona più accogliente di Sahara, che solo a pronunciarlo mi viene caldo.

Quando mi sono immerso, per la prima volta, nell’acqua salmastra, non sarei più voluto uscire. Mi sembrava di affogare nel cielo.

Avevo una sete tremenda, avrei potuto bere tutta l’acqua del mondo e non mi sarebbe bastata. Però avevo il mare, ed ero contento.

Anche se la cosa più bella che avessi mai visto mi impediva di essere felice.

 

Ieri sera il nostro passeur ci ha fatto evadere dal campo, e portati alla spiaggia. Siamo usciti dal cancello principale, che non è mai servito a niente. Mica puoi scappare da solo. Per tornare indietro devi pagare, almeno 500 dollari. E nessuno vuole farlo. Davanti a noi c’è il mare, e non abbiamo barche. Resti qui, ti pieghi, aspetti.

Ci hanno urlato di non fare rumore e non farci notare. I poliziotti ci guardavano, un po’ schifati e un po’ divertiti.

Chi ancora doveva notarci?

Arrivato sulla spiaggia mi sono tolto le ciabatte. Mi piace sentire l’acqua tra le dita dei piedi, la sabbia fresca, il sale che pizzica le piaghe e mi fa capire che sì, sono qui, ancora vivo.

Anche se, magari, una volta morti finiamo tutti in mare. Non saprei.

 

Il gommone rattoppato guidato da Ismail traballa paurosamente mentre saliamo e ci schiacciamo a vicenda, ma ci hanno detto che sono solo poche miglia. Mentre partiamo allungo una mano, raccolgo un po’ d’acqua e me la spruzzo in faccia. È fresca.

In Italia, vorrei imparare a nuotare.

  Un racconto di: Luca Bianco

Illustrazione di Verin

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