Marco de Simone_Giovanna Giordano_Narrandom

Terra bruciata

Prima di partire, mio padre mi aveva fatto un regalo.

Tutto riluceva d’un oro plastificato, lassù, in cima all’immensa torre di Babilonia.

Ogni pianta olografica, ogni paesaggio costruito minuziosamente, ogni schermo che riproduceva oceani, boschi ombrosi o aridi deserti, ogni cosa aveva un odore di rame e di gomma.

Afferrai la cintura dal baule e iniziai a stringermela addosso: il primo giro attorno al petto, sul muscolo pulsante, il fulcro di tutto, in onore della prima cinta muraria che imprigionava il centro della città.

Era un mondo che avevo visitato solo una volta all’anno, per diciannove anni, quando papà mi richiamava dai campi, la prima domenica di maggio, e le porte del villaggio si spalancavano per permettere alla mia gente di addentrarsi nelle viscere della città.

«Vieni ‒diceva‒, andiamo a vedere la bellezza e l’orrore del genere umano».

Un altro giro lo strinsi attorno al ventre, per la seconda cinta muraria.

Chilometri di capannoni grigi in cui si producevano gli ultimi ritrovati tecnologici. L’unica macchia di colore era data dallo sfarfallio dei maxischermi posizionati nelle piazze principali, o fuori dai depositi e dai quartieri dormitorio, grigi anch’essi.

Il sistema era retto dai Brand, dalla produzione alla compravendita di oggetti, ed era lì che venivano fabbricati, fra le polveri sottili e le macchie di umidità.

I signori dei Brand, dodici in tutto, erano controllati dal capo di Babilonia, il Padre dell’Etere, colui che dominava l’accesso a Internet.

Osservai le mie braccia scurite dal sole dei campi, piene di graffi, ma senza alcuna cicatrice, e passai la cintura intorno ai fianchi, prima di chiudere la fibbia.

Nella terza cinta muraria, dove ero nata e cresciuta, al compimento dei nove anni non ci veniva impiantato alcun microchip nell’avambraccio. Da lì, grazie ad una membrana cucita sui palmi, si aveva accesso alle proiezioni olografiche, alla messaggistica e alle piattaforme social. Nella prima cinta, oltre al chip, ricevevi una visiera per accedere ai regni virtuali, dei nirvana dalle ambientazioni più diverse in cui smarrirsi anche per giorni interi.

Da noi si restava nei campi dall’alba al tramonto, non avevamo tempo per le distrazioni.

Ricordavo bene le parole di mio padre, mentre piantavamo gli ortaggi o sradicavamo le erbacce: «Non essere invidiosa di quel che succede dietro quelle mura. Siamo noi quelli fortunati. La nostra vita è piena di profumi, di cose vive, non siamo schiavi della plastica dei Brand. Ci rubano il tempo solo tre ore alla settimana, la domenica, davanti agli unici schermi antiquati delle piazze principali dei borghi, e ce lo rubano mentre siamo tutti insieme».

Lavoravamo tanto, fino a scorticarci le mani, e la sera scivolavo in un sonno profondo e appagante. In quei tre giorni, invece, non avevo chiuso occhio. Non esisteva il silenzio in cima alla torre di Babilonia.

C’era sempre un’ancella pronta a servirmi, e l’andirivieni dei CEO dei Brand era stato incessante. Tutti volevano porgere i loro omaggi alla futura consorte del capo di Babilonia.

Lui, il mio promesso sposo, aveva preso il posto di suo padre da sei mesi, il vecchio era morto di cause naturali, e lui aveva giurato di portare avanti le cose allo stesso modo.

I tentativi di rabbonirmi da parte dei CEO erano ridicoli, ognuno mi mostrava la sua tecnologia, osannandone i vantaggi, screditando gli altri.

Sapevo di guerre fra bande rivali nella seconda cinta muraria, di gente che si accoltellava per strada per eliminare la concorrenza, ma quel fanatismo alimentato dagli spot pubblicitari serviva solo a tenerli occupati, a dargli qualcosa in cui credere.

Nella prima cinta non protestava nessuno, se la noia diventava intollerabile c’era sempre un altro regno virtuale in cui annegare.

Pur avendo varcato i cancelli della prima cinta in modo permanente, nessuno mi avrebbe impiantato un microchip. Il capo di Babilonia non poteva dichiarare una preferenza ad uno dei dodici Brand, così come la sua consorte.

La mia purezza era l’unica cosa che mi faceva sentire ancora a casa.

Avevo conosciuto il mio promesso sposo durante una delle sue visite ufficiali alla terza cinta. Quella prima domenica di maggio, durante la mia ventesima stagione, avevo deciso di non accompagnare mio padre in pellegrinaggio. Vedere quel mondo sgargiante, quella moltitudine di persone curate, dai vestiti sofisticati, quei palmi che contenevano innumerevoli mondi, mi metteva troppa tristezza, per tutto ciò che avevo, per quello che non avrei avuto mai.

Durante quel primo incontro avevamo parlato a lungo della sua vita in cima alla torre e dei suoi obblighi con i Brand. Della mia vita nei campi, dell’assenza di tecnologia che c’era stata imposta un secolo addietro, per non perdere il ritmo del lavoro.

Era tornato a trovarmi molte volte, affascinato dagli odori, dai paesaggi sterminati, dai volti dei vecchi tagliati dal sole.

Mi aveva detto di sentirsi solo dopo la morte di suo padre, che l’aveva avuto in tarda età e che sua madre era morta dandolo alla luce.

Nella sua solitudine, avevo riconosciuto la mia. Per questo avevo accettato la sua proposta.

Per mettere fine al dolore di entrambi, per far crollare ogni muro che separava il mio mondo dal suo.

Una parte di me, durante ogni viaggio nella prima cinta, si era sempre chiesta come sarebbe stato nascere altrove. Dopo ogni pellegrinaggio tornavo a casa e non sapevo mai quale parte avesse vinto: bellezza o orrore, perché i loro sguardi vacui, le dita che pigiavano frenetiche sulla membrana dei palmi, le parole non dette, che viaggiavano solo attraverso codici binari nell’etere, quell’estraniamento e quella freddezza, di quelle cose non sentivo la mancanza. La curiosità restava, e sapevo che valeva la pena tornarci ancora per ricordare a me stessa che l’umanità meritava di essere vista, protetta, alimentata, come gli acquazzoni con i campi appena coltivati. Una violenta scossa, per far nascere qualcosa di buono; solo le piante più forti, quelle con i semi più resistenti, alla fine davano i frutti migliori.

Indossai un accappatoio sopra la cinta, un attimo prima che l’ancella entrasse nella stanza.  Annunciò che la cerimonia sarebbe iniziata fra cinque minuti, e che il mio promesso sposo mi aveva fatto un regalo: un microchip prodotto dall’unione dei dodici Brand, così avrei avuto accesso a tutti i regni virtuali, spazzando via ogni confine.

Se ne andò e spensi le proiezioni olografiche, per contemplare oltre il vetro dell’unica finestra da cui avevo accesso alla verità. Le tre imponenti cinte murarie sembravano cicatrici scure che tagliavano Babilonia.

Sfilai l’accappatoio e osservai le mie braccia piene di graffi, ma immacolate.

Infilai la mantellina bianca che mi ricopriva fino alle caviglie, larga e frusciante come i campi di grano in cui scomparivo da bambina, quando mi sentivo eccitata e spaventata in egual misura, prima di una gita ai piedi della torre, in quelle campagne in cui restavo fino a che la voce di mio padre non trovava il modo di raggiungermi, azzerando anche le distanze più faticose, per guidarmi fino al caretto su cui mi aspettava.

«Andiamo a vedere la bellezza e l’orrore del genere umano».

Attraversai l’immenso atrio che mi avrebbe condotta da colui che regolava quella bellezza e quell’orrore. Mi aspettava in piedi, circondato dai CEO dei Brand, fra le mani stringeva il microchip.

Mi posizionai al centro della stanza e pensai al mio futuro sposo, alla collisione delle nostre solitudini. Poi, mi sembrò di sentire la voce di mio padre che mi chiamava come quando ero bambina. Sfilai la mantellina e sulla sala calò un silenzio elettrostatico.

A volte, per dare la possibilità ai semi più forti di sopravvivere, occorreva bruciare i campi, raderli al suolo, e poi ci avrebbe pensato l’acquazzone.

Prima di partire, mio padre mi aveva fatto un regalo.

Pigiai il pulsante e ci fu solo bellezza e orrore.

Un racconto di Giovanna Giordano

Illustrazione di Marco De Simone

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

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