Nana nera

Le cose andarono così. La sera precedente ero rincasato prima del previsto, in quanto la riunione dei docenti alla quale avrei dovuto partecipare era stata annullata: qualche minuto dopo il suo inizio, una comunicazione aveva informato il Direttore del Dipartimento di Fisica che suo padre, colto da un malore improvviso, era ricoverato in ospedale.

Rientrai dunque in anticipo e, aprendo la porta dell’appartamento, sentii la voce di mia moglie venire dal salotto. Lasciata la giacca nell’ingresso, la trovai sul divano, le baciai la guancia e le chiesi con chi stesse parlando. Lei guardò il telefono sul tavolino di vetro trasparente davanti a sé e, mentre accendeva il televisore, mi disse che aveva chiamato la madre per sapere come se la passasse, dato che non la sentiva da un po’. Poi, cambiando canale, mi chiese della riunione e come mai fossi già rientrato. Quello che lei non poteva sapere era che io l’avevo sentita distintamente pronunciare le parole “A domattina, solita ora”, mentre io sapevo benissimo che sua madre viveva a trecento chilometri da noi e che sì e no la incontravamo per le festività.

Quella sera mi comportai normalmente, e così anche al mattino seguente fino a quando uscii di casa. Una volta in strada m’incamminai e, intanto, chiamai un mio collega per chiedergli di sostituirmi a lezione. Svoltato l’angolo, invece di dirigermi alla fermata dell’autobus, finii la telefonata e tornai sui miei passi, varcai il portone del palazzo dal quale ero appena uscito e salii le scale fermandomi non al secondo piano, il mio, ma al terzo, dove attesi sul pianerottolo. Non erano passati neanche venti minuti quando un uomo, che non avevo mai visto, si presentò davanti casa mia e, prima che lui bussasse, mia moglie gli aprì la porta e lo fece entrare senza dire una parola.

Solo allora, la tensione che si addensava dentro di me dalla sera prima, esplose, enucleando, da una zona remota del mio animo collassato, un furore siderale a me del tutto ignoto. Sentii la mia mente partire velocissima in direzione centrifuga, un razzo con velocità superiore alla velocità di fuga, capace di sfuggire all’attrazione gravitazionale della mia ragione. Mi ritrovai a viaggiare in una galassia di idee via via più violente e ripugnanti, mi spaventai di me stesso e decisi di fuggire. Feci le scale di corsa, precipitai in strada. Vagavo a passo svelto e senza una meta, intersecando le orbite solite di quelli che incontravo sulla mia traiettoria, incurante come un asteroide.

Cercai un pensiero razionale al quale aggrapparmi. Pensai alla lezione che avrei dovuto tenere quella mattina, una lezione sulla relatività ristretta di Einstein. Tentai di reggermi ai due postulati su cui si regge la teoria. Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i riferimenti inerziali. In tutti i sistemi inerziali, la luce si propaga nel vuoto con la stessa velocità costante. La luce, che pensiamo si propaghi istantaneamente, ha invece una velocità finita e persino misurabile. Questo comporta, per esempio, che, se il sole si spegnesse all’improvviso, noi ce ne accorgeremmo solo dopo 8 minuti e 20 secondi. Per 8 minuti e 20 secondi la nostra vita andrebbe avanti nel solito modo. Senza sospettare nulla continueremmo a tenere lezioni, a studiare equazioni, a pagare rate, a programmare vacanze, a comprare regali di compleanno, a fare l’amore, a ipotizzare dei figli, a litigare su quale colore scegliere per le tende del salotto e, intanto, il sole sarebbe già morto.

Ad un tratto compresi cosa renda tanto più atroce il tradimento rispetto a un rifiuto o un abbandono. Non è la rottura o la fine di qualcosa ad annichilirci in modo così disumano, quanto la consapevolezza improvvisa e irreversibile di aver vissuto per giorni, settimane, anni, in un’intercapedine spazio-temporale che della vita vera era solo un’eco. Così come, per 8 minuti e 20 secondi, vivremmo in una luce che sarebbe solo un’eco dello splendore passato di una stella già morta.

Questo fu l’ultimo pensiero che ebbi prima che la mia mente sfuggisse definitivamente all’attrazione gravitazionale della mia razionalità.

 

Non avreste capito come io mi sentissi. Non potevate capire per quali universi vuoti e inabitati la mia mente errasse. Non potevate perché non avevate un’idea di quell’intercapedine. È per questo che, solo oggi, e invece della solita lettera, vi lascio questo racconto. Affinché, ripensando alla luce che in questi anni avete creduto io emanassi, voi possiate capire.

Quella sera tornai a casa e dissi a mia moglie che sapevo tutto e che accettavo la sua scelta. Le chiesi solo, dall’indomani, di sparire per sempre. Lei così fece.

Stamattina, dopo quattro anni, si è sposata con l’uomo che ho visto una sola volta.

Infine, cari amici e colleghi e studenti ed ex-moglie, mentre cala il sole, vi invio questo racconto. Voi lo leggerete intanto che si manifesterà la mia morte, avvenuta quattro anni or sono, e di cui a voi giungerà, come da allora vi è giunta della mia vita, soltanto un’eco.

 

 Prof. T.

 

Un racconto di Arturo Rossi

Illustrazione di Angelo Policicchio

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