Onde

Voleva fare una passeggiata per bagnare i piedi.

 

In alto mare le navi scaricano lo schifo che si tengono dentro per giorni. Le navi sono pance di balena corrose dalla salsedine. Attaccate dalle onde che in cambio tentano di bere il vomito riversato nelle acque.

Le onde non sempre sono mute. A volte capita che il vento fischi e gridi sui mari. Allora si agitano e si mescolano l’una nell’altra con forza. Sbattono contro se stesse e contro ogni cosa gli venga incontro. Quando la bufera abbandona la costa, allora arriva la calma.

Il bianco delle nuvole si riduce con la quiete del cielo, come fa il bianco della schiuma con il calmarsi delle acque. Rimane il blu, chiaro quello del cielo, scuro quello delle acque.

Fissi il mare da due giorni e quasi ti addormenti. Senti i muscoli che tirano verso il basso. Le braccia ti chiedono di penzolare libere. Invece devono rimanere incollate agli intrecci di cotone a cui ti tieni aggrappata. Vorresti spegnerti, accasciarti a terra. La colpa è delle onde e del loro movimento.

Si muovono sempre, anche quando sono riappacificate alla massa d’acqua che le caccia dagli abissi e le condanna a vivere in superficie.

Bottiglie, bicchieri, assorbenti, merda, la salinità li fa stare a galla. Vengono portati sulle rive dove le onde si riducono a piccole parabole per poi ringrossarsi con il richiamo dalle profondità. Tu intanto le conti e hai paura che il gioco possa durare all’infinito. Lo spazio in cui viaggiano è più denso dell’aria e tanto grande da sembrare senza fine. Ma basta fissare l’occhio e il dito per accorgersi che non è così.

Le segui con la testa, con l’occhio e ogni tanto con il dito che trema. Speri di vederlo, lì dove lo sguardo è caduto senza calcolo. Non puoi vedere niente e a volte speri di non vedere niente.

I sensi si scaricano e tu non hai neanche voglia di bere. La colpa è delle onde e del loro movimento e del tuo corpo che lentamente cede.

La pelle si fa secca, ma puoi ancora sentire il cotone della maglia che preme contro il petto nudo. Il cotone a cui le braccia sono costrette a rimanere incollate. Ogni tanto l’annusi e piangi senza lacrime. La sclera è arrossata, lucida ma non liquida. Annusi di nuovo. Il profumo ricostruisce i suoi tratti, te lo ricorda meglio di quanto possa fare una foto.

Vorresti lasciar andare la gola a un urlo, ma dal buco che ti percorre il collo non esce nemmeno un suono soffiato. Hai un piccolo cratere che inala aria salata e potrebbe rimettere il poco conservato dallo stomaco. Ti basterebbe parlare in un luogo vuoto e freddo per accorgerti che l’eco non avrebbe nessuna voce da restituirti.

Vieni con me?, ti aveva chiesto. Ma avevi da fare. Lo dicevi e da fuori arrivava lo stesso odore del mare che senti ora che ce l’hai dritto in faccia.

Lui è uscito con le palpebre abbassate e la bocca storta. Se ne è andato in silenzio e ora che ci ripensi il petto nudo stringe e non puoi respirare. Tu gli avevi gridato di non andare solo, mentre ormai ti dava le spalle. Gli vedevi la nuca bianca, il ciuffo di capelli, il suo castano che ora ami più di prima. Poi la porta ha sbattuto ed è rimasto il silenzio. Sentivi che i rumori di fuori si facevano sempre più forti. Il cielo stava diventando un tappo nero e la violenza stava prendendo le onde. Avevi chiuso le finestre di casa. Le ore si sono prolungate in giorni. Due giorni.

Continui a fissare il mare. Lo chiami e dalla linea blu scuro, blu chiaro nessuno ti risponde. Senti solo l’acqua che mescola la sabbia. Sai che ci vorrà poco e le onde te lo riporteranno. Ti chiedi come sarà la sua nuca bianca, se avrà ancora il suo colore. Come saranno i suoi capelli e cosa avranno raccolto dal fondale durante il viaggio di andata e di ritorno. Immagini di accarezzare le palpebre che teneva calate sugli occhi e la bocca storta con cui non ti ha salutato.

Ti chiedi perché se lo sono preso. Per portarlo dove? A fare un giro dove le navi diventano un piccolo sputo. L’avrà fatta la sua passeggiata, si sarà bagnato i piedi. Avrà sorriso? Senza volerlo per colpa dell’acqua che gli avrà solleticato i piedi. Sai che si sarà sentito così solo da assecondare l’energia del mare e così arrabbiato da accoglierlo oltre le caviglie. Vieni con me? Lo aveva chiesto con la testa abbassata come se sapesse già del tuo rifiuto.

Ora tu hai la testa tra i fili della maglia. Provi ancora a dire qualcosa. Ma la tua voce se ne è andata, quando lui ha sbattuto la porta.

La massa di acqua ti riporterà una massa di carne che forse farai fatica a riconoscere. È comunque la tua carne, e la tua carne deve ritornarti. L’eco verrà indietro per restituirti chi ti apparteneva.

 

 

Un racconto di Elisabetta Rizzo

Illustrazione di Maria Sciannimanico

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