Storia di un ponte dentale

Pensavo che bloccarmi mentre stava masticando sarebbe bastato, ma il vecchio non soffocò.

Sono figlio del sintetico, nato dall’acciaio, eppure non sono abbastanza forte da rinunciare a piangere. Nessuno mi ha istruito in merito, così lo faccio alla maniera dei santi, realizzo le mie lacrime per sanguinamento. È una pratica che richiede metodo: logorare la pelle lentamente, scavare la gengiva ospite fino ai capillari. Fino alla polpa. Fino alla carne viva del vecchio. Solo allora posso regalarmi la mia pena.

La carne degli uomini è intrisa di supplica e di terrore. La supplica è inammissibile, è patetica, la supplica è la ruggine di chi sta al mondo; il terrore è il tartaro, che oscura. Per me che conosco le bocche degli uomini il tartaro è un ubiquo dio della morte.

Nella mia nobile vita avevo sempre biasimato gli uomini. Ne condannavo la debolezza assurta a investitura, l’aspirazione abominevole all’idolatria, la natura fragile; impaurita. La loro perpetua esigenza di protezione. Bastava una carie perché invocassero la trascendenza, perché supplicassero un mondo altro. Gli uomini sono vermi d’alta quota. Si scavano nel cielo le loro inesistenti tane.

Come poteva essere paragonato a me, fratello dei due tartari e nemico delle ruggini, me, a cui il dio della plastica ha promesso esistenza infinita, me, un invincibile ponte dentale?

Biasimavo gli uomini per le loro assurde convinzioni, adesso maledico il giorno in cui il mio Conte bello e soave mi ha abbandonato.

Sono il ponte dentale mobile che aiuta un insulso muratore in pensione, un inutile vecchio a deglutire patate bollite, ma un tempo ho avuto anche io il mio posto nel mondo. Il Conte Vladimirovic mi ha portato con orgoglio, sono stato i suoi denti assetati di giustizia e di sangue.

Ho strappato migliaia di dita infedeli, colpivo sicuro e implacabile prima dell’impalatura. Da vincitore, la notte, riposavo su guanciali di seta e di velluto rosso. Attendevo la mattina quando il mio bel Conte mi indossava, quando i miei canini aguzzi erano il solo riflesso nello specchio, mi guardavo e immaginavo di star bene, sul suo pallido viso. Era così.

Poi un paletto d’argento l’ha colto impreparato, sul campo di battaglia siamo caduti nella polvere e per me da allora non c’è stata più tregua. Un vecchio mercante del color della notte ha passato in rassegna i cadaveri e mi ha portato via. Ho sperimentato l’assenza di tempo nel viaggio verso il grande impero infedele, avvicinandomi alla città dai tetti azzurri ho sperimentato il progressivo perdere d’importanza dell’esistere quando non si serve qualcuno per cui morire. Io non potevo morire; e non potevo muovermi: i miei canini se li è mangiati il vento, la sabbia del deserto ha invaso gli spazi tra i miei incisivi.

Fui portato al mercato della città dai tetti azzurri color del cielo, messo in vendita dal mercante: per lui non ero che un qualsiasi pezzo di ferraglia, niente più del grande Vladimirovic era rimasto in me. Gridavo dio è morto, alle donne e ai bambini al mercato delle pulci, gridavo dio è morto e voi l’avete ucciso. Il muratore mi ha comprato per il prezzo di un pasto caldo, e così io mi sono arrugginito.

Ho provato in ogni modo a reagire, ad uccidere il vecchio infame, ma solo ora capisco che il più nobile dei gesti è quello di accettare il proprio declino.

Voglio morire in terra di Turchia, infettare questo suolo infedele con le mie lacrime di sangue, questo suolo infedele che ha segnato la mia rovina. Seppellitemi sotto un cedro bianco.

Illustrazione di Alessia Arti

Luca Marinelli

Ha per tanto tempo pensato di essere un attore famoso. Poi si è reso conto che quello, a differenza sua, era nato in un carciofo alieno. Da allora scrive per compensare il distacco tra quello che è e quello che sarebbe voluto essere e con la scrittura si è fatto tanti amici. Alcuni di questi sono anche delle persone vere.

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