LD-50

La dose letale è la quantità minima di una qualsiasi sostanza che può uccidere almeno il cinquanta per cento di un gruppo di cavie. Questa è l’unica cosa a cui riesco a pensare. I polmoni bruciano, le gambe stanno per cedere, la gola pulsa tanto da bloccare ogni respiro che prendo e il rumore del mio cuore mi invade le orecchie, offuscando tutto il resto. Ricominciare a correre è stata una pessima idea. Doveva essere un modo per scaricare lo stress e invece mi ritrovo ad annaspare lungo un sentiero sterrato, convinto di vivere i miei ultimi minuti. Rallento il ritmo, tornando a un’andatura più adatta al mio stile di vita. Sono in movimento da appena venti minuti e sto già cercando di immaginare la quantità di margherite che dovrei mangiare per farla finita. Probabilmente superiore alla capacità del mio stomaco. Devo solo concentrarmi sul mettere un piede davanti all’altro, non può essere tanto difficile. Ignorando la protesta che ogni muscolo trasmette al mio cervello cerco di accelerare. Se mi fermassi adesso non riuscirei più a ricominciare. In poche centinaia di metri il dolore alle gambe si affievolisce, lasciandomi un’opportunità per restituire ai miei movimenti una parvenza di corsa. Ora il trucco sta nel lasciare che l’automatismo della falcata prenda il sopravvento, staccare il cervello e pensare ad altro. Incespico per un paio di volte, ma finalmente ci riesco. Le gambe cominciano a muoversi per conto loro, con un ritmo dettato da me solo in parte, permettendomi di tornare a concentrarmi su come ogni cosa, in natura, possieda una dose letale.

Se assunte nelle giuste quantità e nel giusto periodo di tempo perfino le banane possono farti tirare le cuoia. Abbiamo un limite di sopportazione per tutto, superato il quale il corpo collassa. Magari è proprio questo il punto. Ognuno di noi ha una sua personale dose letale di qualunque cosa. Parole da pronunciare, immagini da vedere, errori da compiere e una volta raggiunto il tetto massimo ci spegniamo. Come le mie gambe in questo momento. Rallento ancora, costringendomi a continuare a correre.

Sarebbe tutto molto più facile se la nostra data di scadenza potesse essere nota. Con una quantità precisa di azioni da svolgere saremmo costretti a scegliere con cura a cosa dedicare il nostro tempo e la nostra attenzione. L’importanza che assumerebbe il semplice pronunciare una parola ci spingerebbe a starcene tutti un po’ più zitti. Certo, anche i discorsi più semplici potrebbero allungarsi e venire inframezzati da minuti interi di silenzio, facendoci sprecare quel tempo ora così importante. Ma in fondo, il solo partecipare a una discussione la renderebbe degna di nota. Una consapevolezza del genere renderebbe tutto più frenetico e più composto al tempo stesso. Senza contare il vantaggio di poter organizzare e partecipare al proprio funerale. Chiaro che nel caso si stessero esaurendo le parole bisognerebbe stare particolarmente attenti, con il rischio di crollare a terra a metà del proprio discorso funebre, ma di qualcosa bisogna pur morire. Si potrebbero scegliere le proprie ultime parole, usare gli ultimi passi per entrare direttamente nella cassa o spegnersi appena dopo aver mandato giù l’ultimo boccone del proprio piatto preferito. Con un’organizzazione oculata dei gesti avremmo una morte semplice, pulita ed elegante sempre a disposizione. Niente lacrime, niente trapassi improvvisi. Tutti potremmo dare i nostri ultimi saluti come e quando ci pare. Si tratterebbe solo di gestione delle risorse, che sento di stare rapidamente esaurendo, nonostante abbia ridotto ancora la velocità.

Questa volta mi fermo. Il problema non sono più i muscoli, le gambe hanno superato il momento critico, e l’unica sensazione che ricevo è un diffuso formicolio indistinto. Al contrario, il fiato mi manca del tutto. Ansimando mi piego in avanti e cerco di prendere almeno un paio di respiri profondi, interrotti da colpi di tosse degni di un ottantenne con il vizio dei sigari. Con calma mi metto a camminare, contando i passi. Poco più avanti il sentiero si apre in uno spiazzo con alcune panchine e un tavolo in legno. Fregato in vista del traguardo. Ancora con il fiato corto mi sdraio nell’unico posto al riparo dal sole. La posizione supina mi aiuta a restituire regolarità al respiro e al battito del cuore, che comincia a diminuire di intensità e a rallentare, spostandosi dalla gola alla sua sede d’origine. Chiudo gli occhi e rimango fermo il più possibile, cercando di ritrovare una dignità. Ci impiego più tempo di quanto non vorrei, ma per oggi non ho nessuna fretta. Quando mi alzo l’unico segno rimasto della mia penosa condizione di poco prima è la maglietta impregnata di sudore. Sono incerto se rimettermi a correre o tornare verso casa con calma. Non sono sicuro quale delle due soluzioni sia conveniente. Certamente la corsa consuma meno tempo, ma probabilmente anche più respiri e battiti del cuore. Riflettendo mi appoggio al tavolo, cercando di godermi la pausa fino in fondo. Chissà se abbiamo anche una quantità prestabilita di silenzio da ascoltare. Il mio fisico si è quasi ripreso, ma ancora non riesco a decidere. Fisso il sentiero ancora per un po’, immaginando tutti i conti alla rovescia delle mie azioni. Potrei tirare una moneta, se sapessi quanti lanci mi restano. Non vorrei davvero morire con la curiosità.

Illustrazione di Angelo Policicchio

Stefano Rigoni

Stefano nasce a Parma il due maggio del 1992, l’esatto giorno previsto dai medici, e quella sarà l’ultima volta in cui si presenterà puntuale ad un appuntamento. Frequenta il liceo classico, dove i professori affermano che le sue traduzioni non rispecchiano per nulla l’originale, ma almeno sono piacevoli da leggere.

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