Argento

È proprio una giornata del cazzo, l’ho capito subito dopo aver varcato l’uscio di casa per andare da zio Ruggero. Non ho mai visto un cielo cosi grigio, lontano dal sole dorato che investe di norma Agrigento. Mi sentivo nervoso, non mi piaceva l’idea di dover andare dallo zio, ma nessuno ti leva il malocchio come lui.

Nel parcheggio una testa di cazzo ha lasciato la macchina dietro la mia, e solo dopo aver passato dieci minuti a strombazzare, il cugghiune si presenta apostrofandomi; eppure quando mi vede in faccia mi riconosce subito: “Ma lei è Vittorio Sciurri vero? l’uomo d’argento”. “Mbare” gli ho detto, “c’ho du scappi: una ta lanciu dritta a o centru ri frunti, e co l’auttra t’acchianu e ti pistu comi a na vendemmia se sta macchina non la levi subito!”. Poi sono partito senza neanche aspettare si togliesse completamente dalla mia strada.

Lo odio quel soprannome, mi accompagna da quando a vent’anni raggiunsi il mio primo podio con la nazionale, il primo maledetto argento; me lo ricordo ancora.
Arrivai secondo dietro Paride Nursi, mio compagno di nazionale: corsi tutta la gara dietro di lui, ma alla stazione di rifornimento mi impedì di ricevere l’acqua e non riuscii a tenergli testa. In conferenza stampa Paride sostenne che fui io a lasciarlo passare e a fargli da gregario perché non avevo più fiato, ma l’idea di una doppia medaglia per l’Italia era troppo allettante. E io rimasi zitto, troppo contento della vittoria e intontito dalla fatica per poter ribattere; ed è lì che è nato quel soprannome, assieme al malocchio.
Un qualche invidioso, forse lo stesso Paride, me l’ha menato quando ha visto che la stampa ci è andata a nozze con la mia storia. Da allora non ho mai vinto niente, non sono mai stato fuori dal podio, mai terzo, mai primo, sempre e inevitabilmente secondo.
Ci sono andato vicino tantissime volte. Il fatto è che alla fine, quando senti la folla esultare di fronte al traguardo, le telecamere, i flash dei fotografi, ti scatta qualcosa. Le gambe diventano inconsistenti, come fatte di burro, la vista si annebbia, non senti niente e poi tutto cede, vieni avvilito da qualcuno proprio di fronte al traguardo, come è successo l’ultima volta.
Un keniota, uno che corre a piedi scalzi, mi ha tenuto testa tutta la gara, e all’ultimo mi ha fatto cadere a un passo dal traguardo: sentivo la sua presenza accanto a me, e mi sono girato per vederlo in faccia, la sua espressione calma e serena mi ha fatto fare la bile, e ho perso l’equilibrio, sono inciampato. Ho provato una vergogna infinita mentre tagliavo il traguardo rotolando; sentivo le risate di uno stadio intero. È stato lì, mentre ricevevo la medaglia d’argento che porto in tasca, che mi sono ripromesso “mai più” e ho deciso di rivolgermi a zio Ruggero.

Zio Ruggero abita in aperta campagna, mi accoglie silenzioso nella sua casa mezza diroccata. All’interno sembra che nulla proietti ombra, tranne il viso, pieno di rughe. Ci sediamo a un tavolo, gli do la medaglia, lui ci sputa sopra e, mentre canta una litania, con una cesoia ne stacca una piccola scheggia. Me la porge fissandomi con il suo viso impenetrabile e le sue parole rimbombano assordanti in tutta la stanza: “Mangia!”.
Come se fossi in trance ingoio il primo pezzo. Lo sento graffiarmi l’esofago mentre porto alla bocca il secondo; sento il sapore del ferro risalire la gola, il gusto amaro dell’argento che mi disgusta; eppure continuo inesorabile. A ogni nuova scheggia che ingoio ripenso ai passi che mi sono costati la gloria, il sogno di diventare il nuovo Esseneto.
Quando finisco le mie dita sono macchiate, mi sento la bocca verdastra e ho un fuoco lungo la gola. Zio Ruggero finisce di cantare e mi porge una ciotola piena di liquido che bevo senza esitare. È miele, ne sento la dolcezza che scivola giù e medica tutto, mi dà sollievo, poi però sento qualcosa di vivo agitarsi nella mia bocca. Sto per sputarlo quando Zio Ruggero mi blocca con le sue mani nodose e forti. Non respiro.
La cosa mi ronza tra le labbra e mi punge la lingua, il suo sguardo è ricurvo su di me. Alla fine, per non soffocare, ingoio. Quella cosa si dimena mentre scende giù fino allo stomaco che brucia come l’inferno. Mi accascio e comincio a rotolare, grido, mi viene voglia di vomitare ma non ci riesco, e alla fine svengo.

Non sono mai stato cosi in forma, zio Ruggero lo aveva detto. Ho passato mesi d’inferno con il dolore che non spariva mai. Il comitato olimpico non voleva permettermi di partecipare ma alla fine mi sono presentato lo stesso. Ne sono sicuro, oggi è il mio giorno.
Lo starter fa fuoco, tutti partono, e subito li stacco volando sull’asfalto. Li sento arrancare, come una mandria di cavalli schiumanti, mentre io non sento la fatica. Il mio corpo è leggero, il cuore non manca un battito, e le mie gambe scivolano come miele dorato, eppure. Eppure li sento, quella specie di schiaffo sull’asfalto, quei luridi piedi nudi che mi seguono. Mi giro e vedo il keniota con la faccia contorta dare il massimo per starmi dietro. Ma io decido di godermela, me lo porto così, a un paio di passi da me, fino alla fine. Rallento quando rallenta, accelero quando accelera. Godo nel vederlo soffrire, sento il suo senso di impotenza e di inferiorità.
Lo guardo in continuazione, fino a quando non arriviamo in vista del traguardo. La sento, la folla che esulta, lo stadio che trema, i flash dorati dei fotografi, le bandiere che sventolano, il mio nome, il mio cuore si ferma incantato, e il keniota alla mia destra che mi sta superando. No, non di nuovo, non dopo l’inferno che ho passato. Devo far da scudo a me stesso, penso, mi frappongo fra lui e il traguardo mentre lui cerca di non farsi tagliare fuori; poi è un secondo, un contatto, fra le anche, e rotoliamo entrambi per terra oltre il traguardo.

Durante la premiazione sento i giudici discutere ancora. Quasi tutti hanno abbandonato la cerimonia indignati, nessuno canta, nessuno applaude. Non sento niente, né la banda suonare gli inni nazionali, né la corona d’alloro che mi pongono sul capo, neanche il peso della medaglia sul mio collo. L’unica cosa che sento è il bruciore di stomaco, e una orribile sensazione che qualcosa di vivo stia risalendo il mio esofago, sputo. Un’ape a terra coperta di saliva sembra morta, poi scuote le ali e rediviva vola sulla medaglia che porto al collo, e io rimango ad osservare mentre il loro caldo oro si trasforma in pallido argento.

 

Racconto di Francesco Dragone

Illustrazione di Alessia Arti

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