Leandro

È passato tanto tempo, ma ricordo ancora che ero stato interrogato in storia dell’arte il giorno che vidi Leandro nudo per la prima volta. Solo allora, quel pomeriggio, quando era entrato nella doccia accanto alla mia, mi sembrò di aver capito davvero la materia.

Da un po’ di tempo avevo scoperto che il pannello che separava due docce si era rotto. Un danno minimo, in realtà. Qualcuno, chissà quando, doveva essere scivolato, e probabilmente aveva dato una gomitata al pannello, così si era aperta una fessura nella plastica. Dovunque fosse, ero immensamente grato a quello sconosciuto per quel piccolo miracolo, in cui c’entrava giusto lo spazio di uno sguardo.

Non che nello spogliatoio della piscina ci fosse un gran senso del pudore – Leandro, ad esempio, non si faceva scrupoli a girare con indosso nient’altro che le ciabatte – ma era tutto diverso, attraverso la fessura. Non dovevo abbassare lo sguardo, né farmi bastare le occhiate furtive. Sotto la doccia, nascosto dietro la tendina, potevo starmene tranquillo, a guardarlo senza essere visto.

Certo, l’acqua rendeva faticose certe manovre e smorzava un po’ il godimento; qualcuno poteva aprire la tendina e cogliermi sul fatto, ma era un rischio che ero disposto a pagare. Erano cinque minuti buoni – i miei cinque minuti – in cui l’acqua scrosciava dalla doccia a gettoni e io potevo ammirarlo indisturbato. Per soli cinquanta centesimi.

Intanto nella mente, come la voce fuori campo di un documentario, riascoltavo certe cose che De Bellis ci aveva detto in classe, mentre proiettava le sue diapositive, e che sul momento mi erano sembrate stupide. Stava parlando delle colonne del tempio greco: quella dorica, diceva, aveva la forma robusta e massiccia di un uomo; poi c’era la ionica, che aveva la figura elegante di una donna; infine la colonna corinzia. Quella, aveva detto, era simile a «un fanciullo nel fiore dell’adolescenza».

Aveva solo qualche anno in più di me, Leandro; non più di diciotto. E non si chiamava davvero «Leandro»: quello era solo il nome segreto che gli avevo dato io, nelle poesie che scrivevo per lui sul diario. Altrimenti non lo chiamavo: non ci eravamo mai parlati.

 

Il salone dove c’era la piscina aveva una parete a vetri, da cui la gente poteva guardare quello che succedeva in acqua; sulla parete opposta invece qualcuno aveva dipinto una sfilata di sirene, che nuotavano tra i coralli, i sorrisi rivolti ai nuotatori che affioravano per riprendere fiato.

Un giorno – facevamo riscaldamento con le tavolette – mi accorsi che Leandro era distratto. Continuava a lanciare occhiate verso la parete a vetri. Ogni volta che la sua testa riemergeva dall’acqua, il suo sguardo andava lì. Guardai anche io, ma non vidi altro che il solito stuolo di parenti – mamme, papà, qualche sorella o fratello maggiore – che di tanto in tanto gettavano un occhio sulla piscina, e poi tornavano a sfogliare vecchie riviste.

 

Leandro.

Leandro dagli Speedo verdi e attillati. Leandro simile a un dio.

L’espressione seria con cui si toglieva le scarpe e poi si svestiva. Quel suo tenersi in disparte senza parlare con nessuno. Il sorriso imbarazzato quando gli arrivava all’orecchio una battuta da spogliatoio. E poi i suoi ricci che si sollevavano e per un po’ restavano sospesi, nella stanza degli asciugacapelli.

La fessura nella doccia si apriva proprio all’altezza delle parti basse. Non credo di aver mai visto delle foglie di acanto, se non scolpite su un capitello corinzio, e ancora oggi non ho idea di come sia fatta quella pianta, ma a quindici anni io la immaginavo come quel cespuglio meraviglioso che cresceva sull’inguine di Leandro. I riccioli biondi, dall’aria così soffice, che una volta bagnati diventavano più scuri, di un dorato che tendeva al verde, come l’alloro. De Bellis diceva che gli antichi Greci non distinguevano i colori come facciamo noi: usavano la stessa parola sia per il verde che per il giallo.

Sul diario scrissi una poesia che cominciava così: Ti guardo, Leandro, con gli occhi di un Greco.

 

L’istruttore ci stava dando nuove indicazioni, dopo cinque vasche di delfino. Il getto d’acqua della bocchetta mi massaggiava tra le scapole. Guardai ancora Leandro, le sue ciglia sgocciolanti. Fu in quel momento che capii cos’era ad attirare in quel modo la sua attenzione. A un certo punto fece un cenno col mento, e la vidi. Attraverso il vetro, in piedi, con le braccia incrociate, c’era una ragazza. Quando Leandro le passò davanti, a stile libero, lei gli fece un saluto timido con la mano.

Da quel momento nuotare mi sembrò dieci volte più faticoso. Era anche peggio di quando mi veniva una fitta al fianco, e dovevo sorreggermi di nascosto alle boe della corsia. Non facevo che voltarmi a guardare la ragazza. Dall’altra parte, quando riemergevo per respirare, le sirene dipinte sembravano ridermi dietro. Gli occhialini mi si erano riempiti d’acqua per metà.

Successe tutto in un attimo.

Qualcosa si avventò contro di me. L’aria mi scoppiò fuori dai polmoni. Per qualche istante rimasi nascosto in un vortice di bolle. Poi venne il dolore.

 

Era stato uno scontro frontale. Senza accorgermene, accecato dal cloro, avevo sbandato a sinistra, verso il centro della corsia. Leandro nuotava nel senso opposto e io gli ero andato a sbattere contro.

Ma questo ci misi qualche secondo a capirlo. Sul momento sapevo solo che mi faceva male la spalla, e le dita di una mano, e che anche Leandro si era fermato a metà della piscina: si teneva le mani su un occhio. Riuscii appena a balbettare qualcosa. Tutti gli altri si affollavano attorno a lui, le voci che rimbombavano. L’istruttore si tuffò in acqua.

Non so se lo disse veramente, o se fu il senso di colpa a farmelo immaginare, ma ricordo di aver sentito Leandro che, a denti stretti, mi dava del coglione.

Una cosa di sicuro la ricordo, però: lo sguardo che mi rivolse la ragazza dietro il vetro.

 

La settimana dopo l’incidente, Leandro non c’era. Per tutta l’ora non avrei avuto altro da guardare che l’orologio a muro sopra gli accappatoi. Le lancette che si muovevano lentamente, vasca dopo vasca, più stanche delle mie braccia.

Il nostro unico contatto era costato a Leandro una lesione della retina. Una piccola lesione, avevo sentito dire all’istruttore, che ne stava parlando con uno dei miei compagni, ma avrebbe dovuto subire un intervento. – Dubito che si farà più vedere, – aveva aggiunto. E aveva ragione.

Nelle ultime settimane di scuola De Bellis era passato dall’architettura greca alla scultura: diapositive su diapositive di corpi bellissimi e sfregiati. In quei giorni era sempre un trauma immergersi nell’acqua della piscina: con l’arrivo di maggio avevano smesso di riscaldarla.

 

Un racconto di Raffaele Cataldo

Illustrazione di Elena Grillone

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