Atomi

Mia madre se ne stava in cucina, china sui fornelli, con il grembiule rosso squadrato da quadrati bianchi, sempre legato dietro la schiena. Aveva le unghie piantate in un impasto giallo, quello che faceva tutte le domeniche prima di pranzo e ci metteva dentro quantità enormi di zucchero, due tuorli d’uovo e del cioccolato nero.

Si girava ogni tanto, per controllare che stessi facendo la brava. Per accertarsi che non stessi combinando casini con il manico di qualche mestolo, o che non stessi scheggiando il pavimento di marmo con qualche pentola in acciaio duro. Ma io stavo immobile a guardarle il collo biancastro e i capelli raccolti in una treccia un po’ molle. Mi domandavo quanto tempo mancasse per mettere in bocca un biscotto.

I suoi biscotti erano morbidi e duri allo stesso tempo: si sentivano, quando impastati con la saliva, i granelli di zucchero sciogliersi, proprio vicino al palato, insieme alla pasta molliccia; quando i biscotti toccavano i denti parevano massi, quelli tanto saldi in sé stessi da non poterli rompere nemmeno con un’ascia.

Mia madre era un po’ morbida e dura allo stesso tempo: quando mi rimproverava qualcosa e io lacrimavo, le usciva subito dopo il “Cattiva” un sorrisino di scuse; quando si arrabbiava davvero sentivo il soffitto tremare davvero e mi assaliva l’angoscia, perché temevo la punizione nell’angolo.

Passavano ore da quando infornava i biscotti a quando non scottavano più e potevo mangiarne dieci in un solo colpo.

“Attenta alle briciole!”, mi diceva girandosi. Ed era morbida e dura. Sorrideva ma le si aggrottava la fronte.

Mi cadevano sempre un mucchio di briciole sul pavimento e poi le schiacciavo coi piedi.

Oggi mia mamma non se ne sta più china sulla cucina e ha indosso una di quelle tute infeltrite che s’indossano in casa, quando nessuno ci deve vedere. Ha le mani appoggiate alle ginocchia e le dita incastrate l’una nell’altra.

Si gira ogni tanto, per controllare che io non me ne vada, perché non vuole restare da sola. Per accertarsi che io resti seduta sulla poltrona di stoffa e non me ne stacchi fino a quando fa notte; per controllare che io decida di restare lì, nonostante non ci siano biscotti. Ma io le guardo la nuca canuta, che pare una valanga bianca le abbia tinto i capelli di bianco.

Pesto il pavimento e mi pare ci siano ancora le briciole di tempo fa, quand’ero bambina e immergeva le mani in un ammasso di pasta gialla. Spingo le scarpe sul marmo e mi pare di mangiare i biscotti: ne sento il profumo dentro la gola, sono morbidi e duri allo stesso tempo. Schiaccio le briciole che come gli atomi non si spezzano più; schiaccio le briciole e non mi accorgo che ormai sono atomi. Sento l’odore dei tuorli e dello zucchero a velo perché le briciole diventano polvere e le puoi schiacciare e diventano sempre meno visibili e microscopiche: non le riesci a contare più, a un certo punto, passato del tempo, e scompaiono, sotto le suole di gomma. Ma esistono e volano in aria, come la polvere, fino all’eterno.

Mia madre è morbida e dura allo stesso tempo e se non ne vedrò più la nuca, mia madre, come gli atomi e le briciole ridotte a polvere, esisterà: o nell’aria o sotto le gambe dei tavoli. Tossisce. Del muco le rotola giù fino al mento. “Vuoi dei biscotti?”, le chiedo, guardandomi i lacci slacciati delle scarpe da tennis.

 

Un racconto di Camilla Corrizzato

Illustrazione di Alessia Arti

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