Il binario

Non c’è niente di più triste e inquietante di un vecchio binario ai margini di una città, due pezzi di acciaio corrosi dal tempo sotto pensiline in stazioni quasi dimenticate. Quelle stazioni dove si fermano solo pochi treni al giorno, dove nemmeno c’è la biglietteria né l’obliteratrice, dove le erbacce si innalzano tra le crepe dei marciapiedi e tutto ha un aspetto dimentico.
Ogni tanto qualche nuovo graffito, o qualche barbone accampato, il traffico umano che sbiadisce e si riduce a pochi irriducibili che scendono in numeri sparuti sotto quegli sguardi un po’ ilari di chi nemmeno sapeva che il suo treno potesse fermare lì e che qualcuno ci scendesse.
I binari vecchi e abbandonati sono lo spettacolo più triste che ci sia, più di un campo di girasoli a ottobre o delle lapidi così antiche da aver perso il nome: rimane la via percorsa, il cammino comune, cuori infranti e lacrime di gioia, hanno corso tutti su questi binari o sono rimasti a piangere sotto queste pensiline.
I binari abbandonati sono un teatro di fantasmi e anche quei pochi vivi che vi transitano assumono le parvenze di spettri confusi.

Non torno più così spesso come una volta, perché adesso mi tengo impegnato con una vita di impegni da portare avanti, ma c’è stato un tempo in cui questa stazione, questo binario, questa fredda panchina dove siedo erano un appuntamento fisso. Abbiamo storia, io e questo posto, e la storia fa paura. La storia non se ne va mai.

Ha una felpa sdrucita, troppo larga per lui, la schiena curva, i gomiti sulle gambe. Siede all’altro lato della panchina e fissa un punto all’orizzonte, dove i binari si smarriscono tra mura fumose verso posti di cui non si cura. Non dice alcuna parola e la sua silenziosa presenza è insopportabile.
“Fa freddo, vero?”
Respira appena più forte, tra le mani chiuse a coppa, ma continua a tacere. Potrebbe non essersi accorto di me: per lui potrei essere solo una voce in un anfratto nascosto, un moto dell’inconscio che gli manda flebili segnali dal profondo.
Un treno sferraglia sul binario adiacente al nostro, senza nemmeno rallentare, come se già non vedesse più questo posto scolorito, già cancellato dalle forme dell’esistere e vivo solo in certi battiti di palpebra.

Quella strada era già vecchia quando l’avevamo scoperta, ma non era decrepita né antica: no, era una strada sicura, percorsa da molti viaggi che ne promettevano tanti altri. Saliva i tre scalini cerati del vagone, col suo vestito a fiori di leggerissima tela, mi schioccava un bacio dall’alto, chinandosi e ondeggiandomi i capelli sul viso. Il treno partiva, io rimanevo a guardarlo.
Quando tornavo a casa, tutto era diverso: l’acqua e il cibo, era tutto immateriale, come un’allucinazione. Vivevo senza partecipare. In realtà, rimanevo sempre lì. Aspettavo e con un po’ di pazienza, lei scendeva da un altro vagone. Questa è la storia di una stazione abbandonata dove i treni non tornano più.

Da quando sei andata via, una parte di me se n’è andata con te. Anzi no, è rimasta lì dov’era. Si è cristallizzata, in choc, con gli occhi lucidi e la bocca spalancata, in quella panchina da cui non si è mai mossa. Ogni tanto vado ancora a trovarla. Ho capito che da lì non si muoverà mai più, ma qualche sera mi chiedo come se la passi e vado a controllare. Non che ci speri: per lui è tutta questione di un momento, quello in cui arriverà il treno giusto, quello che da anni aspetta. Se solo capisse che è un treno che non tornerà, ma non sente ragioni. A malapena risponde.

“Fa freddo, vero?”

Il mio fiato fa nuvole di vapore tiepido sulla mia faccia.

“Forse è ora di andare a casa…”

Un mugolio, tipo un “vabbè”, è la sola risposta che ricevo. Segue il silenzio, un certo imbarazzo.

“Resti tutta la sera, bello? Non vai anche tu a casa?”

So già la risposta. Scuote leggermente la testa, senza togliere lo sguardo dal buio.

Lui è sola attesa, la sua vita è un attimo che prosegue in eterno. Non so se da quando si è fermato lì abbia mai avuto un pensiero che non fosse lei. Se i suoi occhi abbiano mai visto altro dopo di lei che sale sul treno, con la testa china e la valigia, il trucco un po’ sbavato dalle lacrime. Non avrà mai neanche pensato a cosa stesse accadendo intorno a lui, se la famiglia e gli amici stessero bene.

Lui voleva salire su quel treno, ma lo sguardo di lei lo ammonì di non farlo. E allora resto lì, a piangere tutte le sue lacrime con me. Io mi alzai e andai via, lui rimase. E fine.

Non pensi sia ora di andare? Ti perdi il meglio, se resti. Il mondo è andato avanti, lo sai? Queste sono domande di circostanza. Non servono a un cazzo.

Mi alzo e saluto, cammino lungo il binario e vado avanti. Mi mancherà sempre, anche se so che non ritornerà. Ma che possiamo fare? Camminare e lasciarci dietro il buio, anche se un pezzo di lui sarà sempre con te. E il binario di un treno che non ritorna sarà sempre il posto migliore per ritrovarlo.

Illustrazione di Verin

Guido Zanetti

Guido nasce a Genova nel 1992. Cresce a Pavia, dove studia filosofia per tre anni e tre quarti. Corre a Torino, dove studia sceneggiatura alla Scuola Holden.

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