A Lizzy

  • Pianeta gruviera, con tunnel comunicanti
  • Pianeta con fiumi al sapore di Sprite
  • Pianeta abitato da piante senzienti e pacifiche
  • Pianeta a forma di ciambella con doppio nucleo laterale
  • Pianeta con il terreno bruciato e duro e resti di umanoidi risalenti a non più di un secolo prima.
  • Pianeta…

 

Cosa potevo scrivere per quello?

Guardai di nuovo fuori dall’oblò e non mi venne nulla.

Perché non c’era nulla.

«Capitano Deburthy, lei è sicuro che–»

«Sì. È qui, Toefl, davanti a noi.»

George Deburthy aveva sessantuno anni ed era a capo del Corpo Esplorativo da ventinove.

Lo chiamavano Signore dell’Universo perché era così: aveva esplorato oltre duecento pianeti.

Il fatto è che a vent’anni aveva realizzato un motore a fusione nucleare fredda e l’aveva infilato in una navicella.

Sulla Terra si era toccata la quota record di diciotto miliardi di abitanti e le risorse ormai non bastavano più.

Deburthy partì da solo, salutato da tutti come un pazzo scriteriato, che non avrebbe fatto mai più ritorno.

Vennero addirittura create delle illustrazioni satiriche di lui che fluttuava nello spazio profondo, con un’espressione soddisfatta sulla faccia e foto completamente nere tra le mani.

Quando rientrò dodici anni dopo, integro e con le immagini di pianeti mai visti dai terrestri, venne riconosciuto come eroe.

Le Nazioni Unite gli accordarono il permesso per fondare il Corpo Esplorativo e stanziarono ingenti fondi per nuovi viaggi intergalattici.

Perché Deburthy aveva visitato molti pianeti, ma non ne aveva trovato ancora uno adatto a diventare Terra 2.

Io facevo parte della squadra del Signore dell’Universo da soli tre anni.

I pianeti che avevo visitato erano quelli che avevo inserito nella lista per Lizzy. Avrei dovuto mettere i nomi pieni di lettere e numeri che aveva dato loro Deburthy, ma avevo promesso a mia figlia che al mio ritorno le avrei raccontato tutto. Quindi preferii segnarmi le caratteristiche di ognuno.

Non che ci fosse il rischio che le dimenticassi, sia chiaro: stiamo parlando di pianeti che l’umanità aveva visitato per la prima volta nella storia.

È solo che quello scricciolo di quattro anni, con gli occhi grandi e curiosi, prima di partire mi disse: «Papo, fai una lista delle cose che vedi, per piacere? Così poi mi racconti.»

E io per sentirla più vicina al cuore, scrivevo.

Quando avremmo fatto ritorno lei sarebbe stata probabilmente adulta e forse più anziana di me, ma ero sicuro che avrebbe avuto ancora voglia di ascoltare.

Fu lei il motivo che mi fece unire al Corpo Esplorativo.

Sua madre morì, quando lei nacque.

Sulla Terra il concetto di lavoro era diventato desueto.

Chiunque con dei figli si fosse unito alla squadra, avrebbe beneficiato di un vitalizio per la prole.

Il prezzo da pagare? Una missione intergalattica in luoghi ignoti, dai tempi imprevedibili.

Ma per Lizzy sarei arrivato anche a piedi ai confini dell’universo, quindi accettai l’incarico, nel momento stesso in cui avevo chiamato per ricevere informazioni.

«Capitano, non riusciamo a mettere a fuoco il planetoide per l’atterraggio. Può essere che i radar abbiano avuto un malfunzionamento?»

Il pilota Trevor Cassidy aveva espresso dubbi sull’operazione.

Tutti gli strumenti di bordo indicavano che stavamo passando vicino a un pianeta dalle dimensioni considerevoli, ma dall’oblò non si riusciva a vedere ancora nulla. C’era solo un vuoto scuro e siderale.

«È un pianeta diafano. Ne ho incontrato un altro nel mio primo viaggio interstellare. Per qualche strano principio fisico tutto ciò che si trova sul pianeta non reagisce alla luce ed è trasparente. Sono completamente spogli, se si eccettua il fatto che si trovano diverse sorgenti d’acqua potabile. Potremo fare ampie scorte.»

«Come faremo a orientarci?» chiesi, con una mal celata preoccupazione.

Deburthy mi guardò, senza tradire alcuna emozione.

«Siamo corpi estranei al pianeta e quando scenderemo, la luce reagirà in modo diverso. Potremo vedere in un ristretto cerchio attorno a noi. Basterà.»

Alzai il pollice e scrissi velocemente sulla lista di Lizzy: Pianeta che non c’è.

 

L’atterraggio alla cieca richiese più manovre del dovuto.

Quando mettemmo i piedi sulla superficie fu strano. Perché non si trattava di una vera superficie.

Non appena i miei scarponi avevano sfiorato il vuoto solido, c’era stata come una scintilla. Poi, il cerchio di luce di cui parlava il capitano si materializzò.

In uno spazio di nemmeno due metri comparvero i contorni di alcuni sassi e di un rigoglioso ciuffo d’erba. Dei contorni biancastri, quasi sul giallo, tipo il latte di soia alla vaniglia che beveva mia figlia, per l’intolleranza al lattosio.

Cominciai a camminare insieme agli altri e il cerchio seguì i miei movimenti. La cosa bizzarra fu che ci imbattemmo in altri sassi, in altri steli d’erba e persino in un cespuglio, ma i bordi rimasero sempre dello stesso colore.

A un certo punto Terry Donovan, il più giovane della combriccola, si piegò in avanti e vomitò.

La brodaglia giallastra che gli era venuta fuori dalla bocca, a fiotto, perse però colore e consistenza, quando toccò terra. Ne rimase solo un contorno irregolare, di linee spezzate e biancastre.

«Ver…Ti… Gini» farfugliò Terry, cercando di pulirsi alla meno peggio, con la manica della tuta spaziale.

Aveva un’espressione contrariata.

Quando si era unito al Corpo Esplorativo non immaginava certo di ritrovarsi sospeso nel vuoto, a soffrire di vertigini su un pianeta che non c’era.

«Donovan, ce la fai a continuare, o devo lasciare qualcuno indietro con te?» chiese Deburthy, indicando il malcapitato.

«No, signore, è… Ok. Posso… Farcela» rispose quello, con la bocca ancora impastata, ma le gambe di nuovo erette e stabili.

«Ok, camminiamo in fila indiana per di qua, prendiamo l’acqua e andiamo via» replicò il capitano.

Marciammo a lungo, senza imbatterci in nessun corso d’acqua.

Solo sassi e steli d’erba. Solo steli d’erba e sassi.

Nient’altro.

A un certo punto misi la mano sulla spalla di Donovan e gli chiesi come stesse.

«Diciamo bene. Forse dovevo restare davvero indietro, ma sarebbe stato un disonore» mi rispose, con una faccia smunta.

Decisi di tirarlo su. Non ce la facevo a vederlo così e gli dissi: «Tu vedi sorgenti? Mi sa che il Signore dell’Universo comincia a perdere colpi.»

Il ragazzo accennò finalmente un sorriso, ma quella fu l’ultima mimica facciale che fece con un volto normale.

Un attimo dopo dal suo corpo vennero via tutti i colori e restarono solo i contorni lattiginosi.

Lo vidi portarsi le mani alle tempie e aprire la bocca per esprimere il suo terrore, ma nessun suono venne fuori da quel cerchio vuoto.

Poi, di Terry sparì anche la sagoma e dove prima c’era una persona, rimase solo un vuoto nero.

Allora mi avvicinai e cercai di farlo rientrare nel mio cerchio di luce, ma fu inutile.

Terry non esisteva più.

Allarmato, alzai lo sguardo verso gli altri nove compagni e scoprii con orrore che era toccata loro la stessa sorte.

Anche il mio corpo era diventato solo contorni.

Tirai fuori la lista di mia figlia e l’ultima cosa che vidi, fu il foglio nero, senza più nulla di scritto sopra.

Erano rimaste solo due parole: “A Lizzy”.

 

Un racconto di Mattia Grossi

Illustrazione di Giulia Canetto

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