Nerofumo

Si erano portati dietro un’accetta – la teneva legata al fianco, il Fantasma. Lo avevano chiamato il Fantasma perché non si sentiva. Era come i gatti, ti arrivava alle spalle che nemmeno te ne accorgevi, forse perché era magro, o forse era proprio il suo modo di camminare, fatto sta che neanche sulle foglie secche faceva rumore.
Quel giorno gli aveva detto, vieni con me.
E Ferrero aveva fatto di sì con la testa, anche se stare col Fantasma un po’ gli tornava difficile, proprio perché non faceva rumore e sembrava a volte di stare da soli anche quando ce lo avevi vicino.

Avevano trovato dei rami a terra mentre passavano per la radura, di sicuro erano caduti durante il temporale di due giorni prima, così lui e il Fantasma erano tornati indietro e adesso stavano lì, in quella parte dove il sentiero si affossava e il bosco sembrava sprofondare. Era quasi sera, il buio premeva intorno, e c’erano mille modi in cui le cose facevano ombra, gli alberi, i sassi più grandi e certi cespugli. Confondevano lo spazio, le distanze. E Ferrero non si sentiva niente tranquillo, ma l’altro invece aveva una faccia contenta e ora gli stava facendo segno con la testa di mettere un piede sopra al tronco e di tenerlo fermo.
E forse era stato in quel momento, per via della faccia contenta, o di quella specie di cenno breve col mento quando il Fantasma gli aveva indicato il tronco, ecco forse era stato in quel momento che Ferrero aveva smesso di pensare al buio e aveva preso a pensare ai gesti, invece. Che alla fine i gesti, nella maggiore parte dei casi, erano rimasti gli stessi. Il modo di appoggiare la suola sul tronco, facendo pressione, di sollevare l’accetta, poi il colpo secco, le mani strette intorno al manico, e alla fine una specie di resistenza quando si doveva tirare fuori la lama dal taglio. Quella cosa dei gesti, che erano uguali e che la guerra non li aveva modificati poi tanto, a Ferrero lì per lì l’aveva come tranquillizzato. Chissà perché. Ci aveva ripensato spesso in seguito, che forse s’era tranquillizzato troppo.  

“Ti piace la legna?” gli disse all’improvviso il Fantasma e lui rispose subito di sì. Lo fece in fretta, anche se poi non è che avesse proprio capito la domanda.
“Lavoravo alla segheria prima,” disse il Fantasma. “E tu?”
La sua voce era sottile come il suo corpo, ma insieme profonda. Era piena di muscoli e nervi, e allo stesso tempo occupava poco spazio, la immaginavi infilarsi nelle cose, tipo gli spifferi d’aria sotto le porte.
Ferrero gli disse che lui aveva studiato chimica.
“Chimica?”
“Come sono composte le cose, come sono fatte dentro”.
Sembrava un buon modo per dirlo. L’altro comunque tornò alla legna.
“Questa brucia bene,” disse, e poi dopo un momento aggiunse: “Mi piace fare le cataste. Mi piace mettere i ciocchi in ordine. Lo facevo sempre io alla segheria, quando si aspettava di caricarli. E anche a casa. Mio padre mi diceva, falle te le cataste. Ci vuole bravura. Ci vogliono metodi.”
“Tipo?”
“Tipo che, quando fai la catasta, se i legni sono curvi la fai bassa. Se sono corti rotolano, e quindi o li tagli lunghi, oppure ogni pezzo lo devi posare con forza, scrollare un po’ e poi fai quello dopo, come se costruisci una casa. E secondo l’inclinazione uno per dritto e uno per rovescio.”
Ferrero annuì e quando il Fantasma gli passò il ciocco sentì la resina che gli incollava le dita e per istinto se le portò al naso e tirò su, voleva sentire l’odore.
“Lo sai te a che serve? Te che fai la chimica.”
Ferrero disse che non lo sapeva. Si capiva che il Fantasma ci teneva a dirglielo e per lui non faceva differenza. In seguito avrebbe pensato spesso anche a quello, a come il Fantasma gli aveva spiegato la resina.
“È l’albero che si cura le ferite,” aveva detto il Fantasma. “Quando lo tagli butta fuori la resina per riparare la spaccatura. Anche quando ci pianti un chiodo. L’hai mai visto cosa fa un albero quando ci pianti un chiodo? Inizia a buttare fuori tutta la resina e alla fine il legno ci cresce intorno e ci si forma come un nodo, e il chiodo non lo tiri più via, come se la pianta se lo fosse preso.”
Il Fantasma prese un pezzo grosso di resina e se lo fece passare tra il pollice e l’indice, e a Ferrero venne in mente la sensazione delle dita appiccicate come se la sentisse lui tra le proprie, come un attimo prima, e poi più indietro nel tempo, quand’era bambino, che con la resina ci facevano delle palline dure da soffiare con la cerbottana. Non ci pensava più da un sacco di tempo. E anche questo dimostrava che i gesti erano sempre gli stessi.
Lo aveva pensato, poi aveva sentito il rumore, e non era il Fantasma, che lui di rumore non ne faceva. Veniva dal fondo del bosco ed era già troppo vicino. Aveva capito che erano passi e che erano cani e poi aveva fatto cadere il ciocco per terra e si erano messi a correre verso il rifugio.   

La partita di resina era difettosa.
Si trattava di resina per vernici e il fatto che fosse difettosa faceva sì che la vernice non essicasse. E lui aveva pensato: una vernice che non asciuga è come un fucile che non spara. Strana similitudine. Strano mettere insieme una cosa tutto sommato innocua come una vernice con un fucile.
Ma forse, se gli era venuto quel paragone in testa, era stato per via del colore. Perché della resina difettosa se ne era accorto quando l’aveva mescolata a un tipo di vernice nerofumo. E quel colore di smalto scuro, ecco sì, poteva far pensare a certe armi, con tutto ciò che si portavano appresso, tipo gli spari e il buio e i cani.
E lui che adesso non si chiamava più Ferrero e nemmeno 174517, ed era tornato al nome che gli avevano dato i suoi e che gli era sempre piaciuto perché conteneva un certo ordine e insieme un’urgenza e un buon piazzamento, ecco lui, Primo Levi aveva scritto una lettera al fornitore tedesco. Lo racconta nel penultimo capitolo de Il sistema periodico, racconta della lettera scritta al fornitore, e racconta che tutto lasciava pensare all’avvio di una corrispondenza dai toni tecnici, un educato rimpallo, i termini della questione, le scuse e certe reciproche pedanterie. E invece c’era stato dell’altro.
Il fornitore aveva suggerito di aggiungere alla resina naftenato di vanadio – il capitolo si chiama proprio così, Vanadio –, e poi si era firmato Doktor Müller.
E a lui era venuto in mente subito che potesse essere proprio lo stesso uomo. Gli era venuto in mente che potesse essere quel Müller.
Primo Levi l’aveva immaginato mille volte, sperandolo e forse anche temendolo: il momento in cui si sarebbe di nuovo trovato di fronte a uno degli aguzzini, dei nemici, di quelli che lo avevano chiamato 174517. E tuttavia poi lo scambio si era rivelato più complesso, come al solito la realtà si era rivelata più imperfetta della chimica e della scrittura, o dell’immaginazione.
Il Doktor Müller non era un infame, né un eroe, piuttosto una via di mezzo, un uomo che a ogni lettera continuava a domandargli di incontrarlo. Forse per ricevere una specie di perdono, un’assoluzione – non era stato lui, in fondo, a permettere a Primo Levi di radersi anche il mercoledì? Non gli aveva fatto avere quel paio di scarpe?
Possiamo incontrarci, per piacere?, scriveva il Doktor Müller. E poi scriveva, possibilmente in Riviera.
In Riviera, coi bagnanti sullo sfondo, con gli ombrelloni, con il sole, aveva pensato Primo Levi, e no, lui non voleva. Non gli andava con tutta quella luce di rivedere Müller. Così si era seduto al tavolo e si era messo a scrivergli la risposta. Gli aveva scritto che di Auschwitz doveva rispondere ogni tedesco, anzi ogni uomo. Nessun riferimento alla Riviera.
Ma a quel punto aveva suonato il telefono. Dall’altra parte, Müller.
Primo Levi racconta che la comunicazione era disturbata, si capiva poco, la voce era rotta, agitata. Per Pentecoste, gli aveva detto il Doktor Müller, sarebbe andato a Finale Ligure: potevano incontrarsi?
A Finale Ligure. In Riviera.
E lui aveva risposto di sì.
Perché era stato preso alla sprovvista, a volte gli succedeva, per timidezza, per imbarazzo. Rispondeva di sì. E, che strano, in quel momento aveva provato la stessa sensazione di quando il Fantasma gli aveva detto di andare a fare legna e lui non ci voleva andare, e gli aveva detto di sì anche se non voleva.  

Quella notte lo avevano preso nel rifugio, lo avevano fatto prigioniero e del Fantasma non aveva più saputo niente. Dopo che s’erano messi a correre, per quanto ci pensasse, non riusciva a dire se ce l’aveva avuto accanto, e poi nel rifugio, c’era o no il Fantasma? Non riusciva più a stabilirlo. Come se di colpo il Fantasma fosse sparito, al punto che certe volte Primo si domandava se fosse mai esistito davvero.
Ma che alla fine fosse esistito o meno, lui se la ricordava quella cosa sulla resina.
Si ricordava quando aveva preso tra le dita il pezzo di resina e adesso gli sembrava di vederla ancora splendere tra il pollice e l’indice del Fantasma, come se quel grumo di cera ambrata fosse illuminata, e non poteva essere perché nel bosco era quasi notte. Eppure gli sembrava. Una goccia densa e iridescente.
È il modo in cui l’albero si cura le ferite, gli aveva detto il Fantasma.
Dopo aver abbassato la cornetta con Müller, Primo Levi aveva pensato a quello, all’albero e alla partita di resina che era arrivata dalla Germania, difettosa.
Difettosa, che non asciugava. Difettosa, che non rimarginava, che non chiudeva le ferite.
Il Doktor Müller non andò mai a Finale Ligure. “Otto giorni dopo,” racconta Primo Levi, “ricevetti dalla Signora Müller lannuncio della morte inaspettata del Dottor Lothar Müller, nel suo sessantesimo anno di età”. È lultima frase di Vanadio, il racconto finisce così. Primo Levi non dice altro perché non cera altro da dire.

Quella sera, dopo la telefonata, mentre infilava un ciocco di legna nella stufa, Müller si sporcò di resina il maglione. Un maglione di lana grossa, vecchio, che usava solo in casa. Non se ne accorse neppure Müller, e certo di quel piccolo incidente Primo Levi non seppe mai nulla.
La sola a rendersene conto fu la moglie di Müller, mettendo via la roba del marito, parecchi mesi dopo la sua morte. Mentre provava a togliere la macchia con l’unghia, più per istinto che per necessità, pensò che era una cosa proprio strana quella, che la legna tagliata anche dopo moltissimo tempo continua a buttare fuori la resina.
Poi lasciò perdere la macchia, che tanto era inutile, e si infilò il maglione.

Un racconto di Emiliano Poddi ed Eleonora Sottili
Illustrazione di Verin 

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