Ambra

Siamo sempre in pochi al pranzo di Natale.

Siamo pochi anche a Pasqua e il giorno della Befana, ai compleanni e in occasione delle altre feste comandate.

Quando si riunisce attorno al tavolo ovale del nostro soggiorno, la mia famiglia è davvero poca. Siamo mia madre, mio padre, mio zio, mia zia e io.

Non ci stiamo particolarmente simpatici, ma neppure ci odiamo.

Stamattina è Natale e mia madre, appena sveglia, ha preparato la lasagna. Ritta sulle gambe magre, teneva il mestolo con entrambe le mani, girava il ragù in una grande pentola d’acciaio.

Ora che siamo tutti seduti composti, con il tovagliolo aperto sulle gambe, mia madre dice: “Forza passatemi i piatti”. Brandisce un coltello, taglia la lasagna in cinque quadrati della stessa dimensione. Mio padre avvicina il suo, vuole essere servito per primo, ed inizia a mangiare subito, scottandosi la lingua. E’ costretto a fermarsi per bere un po’ d’acqua. Posa il bicchiere, mi sorride e ricomincia a mangiare.

“A me poca, per favore” dice mio zio. E’ vestito da cacciatore, con un fazzoletto verde annodato al collo e una camicia a scacchi marrone e blu. Nel suo tempo libero mio zio si toglie i suoi vestiti da impiegato ministeriale e infila i pantaloni mimetici. Va con il suo amico Carlo a cacciare le quaglie, ne porta a casa sei, sette, ma nessuno le mangia. Rimangono nel congelatore per mesi, dimenticate.

“E quindi”, dice puntandomi la forchetta addosso, mentre aspetta che mia madre cominci a mangiare, “Hai avuto tempo di leggere quella cosetta che ti ho dato?”

Mio zio è il fratello di mia madre e ha due grandi passioni: la caccia e l’Egitto. Tutto ciò che esula da questi due argomenti è per lui di scarso interesse. Vuole sapere se ho letto l’articolo di Focus su Tutankamon che mi ha dato una settimana fa.

Faccio no con la testa e ascolto mia madre che si lamenta con mio padre del pesce, non si sa più dove comprarlo per mangiarne di decente.

Ogni tanto mio padre si schiarisce la voce come chi sta per dire qualcosa, ma poi non dice mai niente e continua a mangiare.

Ognuno ha fatto la sua parte per questo pranzo di Natale. Mia madre ha fatto la lasagna, io ho dato una mano con gli antipasti, mio zio ha cucinato una delle sue quaglie e mia zia ha preparato il tronchetto.

È bello a vedersi, il tronchetto. Un rotolo di pan di spagna che lei ricopre di cioccolato fuso e decora con pupazzetti di zucchero. Alberi di Natale, fiocchi di neve, un pinguino che pattina, casette di marzapane. Il procedimento non è semplice. Bisogna aspettare il momento opportuno, il cioccolato deve raffreddarsi quel che basta per inciderlo lievemente con uno stuzzicadenti, ricreando le venature del legno. Una colata di miele per fare la resina, e il tronchetto è pronto.

Quest’anno mi sembra più bello del solito, mia zia si è impegnata molto con le decorazioni e anche lei lo sa, quando arriviamo al momento del dolce toglie i piatti sporchi e lo porta in tavola con un sorriso soddisfatto in viso.

Mia zia ha i capelli rossi, le sopracciglia fini e qualche tempo fa tradiva suo marito, cioè mio zio, con il farmacista del quartiere.

Non era una cosa segreta, l’aveva detto a tutti. Diceva di essersi innamorata, era una vera  e propria relazione con tanto di cene romantiche e uscite al cinema.

“Ha detto che non prova più attrazione fisica per me”, piangeva disperato mio zio in quei giorni.

Tutti avevamo ben presente il farmacista. Pizzetto, un po’ di pancia sopra la cintura, dei modi sempre gentili. “Non mi desidera più”, piangeva mio zio. Non dormiva da trentasei ore e gli tremavano le mani.

Poi lei cambiò idea, tornò indietro e della cosa non si fece più cenno.

Ma quest’anno, ad inizio settembre,  a Roma ha piovuto molto e quando a Roma piove molto in poco tempo, le foglie accumulate sui marciapiedi e gli aghi di pino diventano una pappa che blocca i tombini, l’acqua non defluisce e la città si allaga.

Ha piovuto per due giorni consecutivi, poi il terzo giorno è uscito il sole.

Ero in camera mia, è entrata mia madre senza bussare e ha detto di vestirmi e di accompagnarla in ospedale.

La pioggia aveva reso la terra soffice e a mia zia era caduto un pino di trenta metri addosso.

Successivamente ci avrebbe raccontato più volte l’accaduto. Era in macchina, ferma al semaforo, con la radio spenta. Ha sentito un rumore tipo crac, e ha saputo immediatamente e senza dubbio alcuno che quello era il rumore di un albero che si spezza, anche se non aveva mai sentito prima il rumore di un albero che si spezza. Non è riuscita a fare nulla, né a spostare la macchina né ad uscire, è rimasta seduta con la consapevolezza che un pino di trenta metri si stava per schiantare sulla sua Smart. Il pino si è schiantato ma lei non è morta, il tettuccio ha parato il colpo anche se i rami hanno spaccato il parabrezza. E’ uscita fuori dalla macchina e ha chiamato mio zio al cellulare.

L’abbiamo trovato seduto in sala d’attesa su una delle sedie in plastica, in grembo una borsa da donna con i manici di legno.

Sembrava stranamente calmo, ci sorrise, si alzò per baciarci e poi si rimise seduto, sempre con la borsa in mano. Poi disse “E’ una miracolata”.

“E’ vero”, disse mia madre.

“Un centimetro più in là, un solo centimetro più in là e sarebbe morta. Non ci sarebbe più.” Ci guardava negli occhi, incredulo.

“ Il ramo ha spaccato il parabrezza e si è conficcato nel sedile, tra le sue gambe. Un centimetro più in là e ora non ci sarebbe più”.

Arrivò una dottoressa, disse “Può entrare adesso”. Lui si alzò e mi diede la borsa.

“Tienila tu finché non torno”.

La borsa era pesante, me la rigirai tra le mani e mi accorsi che proprio vicino al manico di legno era sporca di sangue, del sangue di mia zia, e quando la posai per cercare un fazzoletto mi accorsi di avere le mani appiccicose. Tutta la borsa era appiccicosa, era la resina dell’albero che si era schiantato sulla sua macchina e che per un miracolo non l’aveva uccisa.

La operarono al naso, inserirono una placca sul setto, dovette stare un mese a letto senza riuscire  a parlare bene, con dei dolori fortissimi alla schiena e alle gambe.

È una miracolata, continuava a dire mio zio nei giorni successivi. Una miracolata. Un centimetro più in là e sarebbe morta.

Poi sono passati i giorni e i mesi, fino ad arrivare ad oggi, il giorno di Natale, a questo momento in cui abbiamo finito di mangiare il tronchetto e qualcuno ha alzato il volume della televisione, c’è il TG1.

“È che era proprio un articolo interessante sai”, dice mio zio slegandosi il fazzoletto dal collo e posandolo sullo schienale della sedia. Fa un ruttino discreto, con la mano stretta a pugno davanti alla bocca, poi prosegue “La Via dell’Ambra. Un complesso sistema di vie attraverso cui l’ambra veniva trasportata dal Mar Baltico all’Egitto. Tutankamon possedeva svariati oggetti d’ambra nel suo corredo funebre”.

Lo guardo e mi chiedo perché non può parlare d’altro, per una volta.

Chissene fotte dell’Egitto. Mi dico che forse mia zia non ha avuto tutti i torti.

E che forse se l’è meritato, lui, che lei andasse al cinema con un altro. E forse si è meritato di rimanere anche con il dubbio, quest’estate, seduto su quella sedia di plastica alle dieci di mattina di inizio settembre. A continuare a ripetere che quello era un miracolo, che tutti noi ci trovavamo davanti ad un vero e proprio miracolo. Senza dar voce però al tormento di non sapere perché, in ogni caso, sua moglie fosse in coda al semaforo alle dieci di mattina di inizio settembre, mentre avrebbe dovuto essere seduta dietro la sua scrivania, al sicuro.

Stiamo tutti zitti a guardare la televisione, i miei genitori dormono sul divano, seduti vicini ma senza sfiorarsi. Mia zia prende il fazzoletto che suo marito ha lasciato sullo schienale della sedia e se lo arrotola al polso.

“Un bell’articolo, proprio interessante”, dice lui sorridendole. Allunga un braccio e le cinge le spalle.

 

Le goccioline di ambra, il nome antico della resina, cadono su insetti ed altri animali di piccole dimensioni, inglobandoli, soffocandoli e conservandoli, pressoché intatti, per milioni di anni.

 

Un racconto di Greta Olivo

Illustrazione di Melissa Brusati

 

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