Swan, il cigno gangsta

Tutti sappiamo cosa fanno i cigni di giorno. Se ne stanno lì, a mollo nel loro laghetto, ad aspettare che qualcuno gli lanci delle briciole di pane da mangiare, spesso e volentieri solo per rifiutarle. Bestie pigre, galleggiano come paperelle di gomma (ma più belle) nella loro vasca di acqua sporca.

Quello che non tutti sanno è quello che i cigni fanno di notte. La casetta di legno all’angolo del loro habitat recintato, istituzionalmente costruita per proteggerli dalle intemperie, in verità ospita lunghe serate ricche di movimenti strani e rumori molesti. Almeno secondo gli umani.

Quella sera l’organizzazione non aveva badato a spese. Le Super Quack, il trio di anatre più famoso del mondo animale, cantavano sul palco di terriccio mentre il vecchio custode, di cui nessuno si ricorda mai il nome, aveva trovato il modo di arricchire lo spettacolo con un gioco di luci: gli piaceva beccare a ripetizione l’interruttore della lampadina in cima alla costruzione.

Non sono poi così pigri, questi cigni, ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola. Swan se ne stava sdraiato sul lato laghetto con i piedi palmati a mollo e le ali rilassate. Era quel tipo di volatile con cui si può evitare di parlare, di quelli che ti fanno capire chi comanda solo con il nome. I suoi genitori, discendenti della famiglia più nobile del parco, avevano optato per la lingua inglese proprio per sottolineare la loro superiorità; Swan aveva tutto dalla vita: il piumaggio più bianco, il collo più lungo e tutto ciò che ne consegue, ovvero interminabili file di cigne disposte a tutto per passare qualche minuto con lui. Aveva la vita che qualsiasi individuo nato cigno avrebbe voluto, ma l’arancio vivo del suo bel becco non veniva mai rigato da un sorriso.

Una cignetta niente male gli passò accanto. Incrociò prima il suo sguardo e poi quello di due brutti ceffi, che presero a seguirla. Uno si permise addirittura di allargare l’ala destra e toccarle il sedere. Swan si alzò senza troppa convinzione per proteggerla e fu accolto da una risata generale.

“Ok, ok, la lasciamo andare. Tanto lei voleva parlare con te, come tutte,” disse quello più grosso. Doveva aver rubato a qualche umano la collana sottile che gli pendeva sul petto.

Swan non sapeva cosa dire.

“Non ti metto le ali addosso solo perché passerei dei guai, però non provare più a fare il galletto con noi. Non ci sei tagliato, principino. Non ci sei nato.”

Swan rimase immobile. Si sentiva come uno di quei suoi simili di pietra che decorano le scalinate delle ville francesi.

Il ceffo più piccolo si rivolse alla cignetta: “Non ti preoccupare. Il tuo amato, quello di tutte, sarà subito da te. Ora deve correre un attimo da mammina a piangere. Poi uno dei suoi servitori gli liscerà le penne e sarà come nuovo.”

Dopo una sonora risata gracchiante, girarono le zampe e lo lasciarono lì, al centro della pista.

Lo avevano toccato sul vivo. A volte gli era già capitato di pensare che sarebbe stato meglio non avere addosso tutto quel candore. Quel nome pesante, intimidatorio. Quella bella vita cucita addosso dalla nascita. Ora ne era sicuro: sarebbe stato meglio finire nel banco frigo di un supermercato con addosso una bella etichetta rossa piuttosto che vivere un altro giorno da figlio di papà con le ali mosce. Con la luce intermittente ancora negli occhi, Swan decise di spogliarsi di tutto ciò che era stato e di iniziare una volta per tutte a costruirsi una vita per conto proprio, senza l’aiuto di nessuno. Sarebbe diventato come il suo idolo ArCigno, quel romano che aveva spinto nel suo laghetto un turista troppo invadente; o come Racigne, il drammaturgo francese incastrato dagli umani per il furto di una baguette intera. Si sa, i criminali esercitano il maggior fascino proprio su chi vive lontano dalla loro realtà.

Il primo passo per cambiare vita era chiaro: un nuovo look. Swan voleva diventare nero come i suoi modelli e progettò una fuga dal laghetto. Dovette lavorare da solo, poiché nessuno era disposto ad assecondare il capriccio di un nobile annoiato, ma riuscì a costruirsi una pista di lancio abbastanza lunga da consentirgli di prendere velocità. La stazza e il peso non erano dalla sua, per non parlare delle mille lezioni di volo marinate per pigrizia nel corso degli anni. Swan non era tipo da dedicare più di un tentativo a qualsiasi intento, ma questa volta la posta in gioco era troppo alta per lasciarsi scoraggiare da qualche macchia di fango sulle ali. Non desistette nemmeno quando, al terzo tentativo, il suo bel becco si conficcò nella terra umida. Rimase qualche minuto immobile, a zampe all’aria, a meditare, poi decise che la seguente sarebbe stata la volta buona. E così fu: riuscì finalmente a decollare e prendere quota. Un paio di cigne lo salutarono con le ali spiegate, ma non ottennero risposta.

I piedi palmati atterrarono sul cemento con un piccolo tonfo. Sul tetto spoglio c’erano solo un comignolo di mattoni e uno strano apparecchio che emetteva aria calda e rumore. Swan aveva freddo. Non era mai uscito dal recinto del laghetto. Per quanto ne sapeva pochi ci avevano provato, e forse c’era un motivo. Cercò di pensare ad altro, ma non andò oltre il perché quell’insegna al neon è accesa in pieno giorno? Conosceva le insegne al neon grazie ai racconti strampalati che sentiva la sera nella casetta, che a volte diventavano una cosa sola con il canto delle anatre e si fermavano sulle punte del filo spinato che divide la realtà dall’immaginazione. Swan cercò di non farsi pungere e spostò lo sguardo verso il comignolo: il fumo l’avrebbe reso grigio senza fatica e in pochi minuti, ma lui voleva diventare nero. Il cigno più nero che si fosse mai visto.

La vetrina era ampia e pulita. Dentro, un manipolo di pettinatrici e shampiste compivano magie sui capelli di diverse signore anziane. Sulla poltrona più lontana la titolare stendeva con un pennello la tinta nera sulla testa di una cliente. Ecco l’obiettivo di Swan, che da vero cigno reale entrò in picchiata dalla porta principale. Il tonfo del becco sul bancone fu la prova che aveva calcolato male le distanze e allertò le signore. Il negozio si riempì di urla ben meno melodiose di quelle delle anatre mentre il cigno si librava nuovamente in aria e prendeva d’assalto la testa fresca e nera dell’anziana. Giusto il tempo di qualche striatura e Swan capì che era giunta l’ora di abbandonare il luogo del delitto: quell’ambiente che fino a un momento prima somigliava al tranquillo laghetto da cui proveniva si era trasformato in un pandemonio pieno di urla, corpi flaccidi dai movimenti vorticosi e forbicine fluttuanti. Volò in una selva di braccia, ma proprio quando si sentiva salvo una mano armata di rasoio lo ferì alla pancia. Uscì dalla porta e mise insieme le ultime forze per sparire.

L’insegna al neon era di nuovo lì a fissarlo. Orme rosse e palmate coprivano gran parte del tetto. La ferita gli faceva male, zoppicava, ma ad ogni passo si sentiva più forte. Ancora un salto e avrebbe potuto planare verso il laghetto. La parte più semplice, specie dopo un’impresa come la sua. Il ritorno dell’eroe. Fu con questi pensieri che Swan prese una piccola rincorsa sul cornicione, accusò il dolore fino a perdere un respiro e precipitò sul marciapiede.

Ormai si era fatto buio e il rosso del sangue si confondeva con il nero della tinta. Stremato e riverso sull’asfalto, tutto ciò che il cigno riusciva a sentire era il rumore delle scarpe dei passanti che si scansavano per non pestarlo. Fu soddisfatto quando vide che nessuno si fermava a soccorrerlo o a lodarlo per la sua bellezza, e decise che per quel giorno aveva fatto abbastanza. Sarebbe tornato l’indomani al laghetto e avrebbe raccontato a tutti di aver superato i suoi idoli, di essere diventato il cigno più gangsta che fosse mai esistito. Si addormentò con un sorriso sotto il becco.

Quella notte il TG Regione aprì così: “Il bizzarro blitz di un cigno al salone di bellezza.”

La giornalista, tutta sorridente e divertita, si esibì in una sequela infinita di ovvie battute sul rapporto tra il cigno e la bellezza.

Tipico degli umani: si affrettano a etichettare tutto, tanto poi mica le pagano loro le conseguenze.

 

Un racconto di Marco Broggini

Illustrazione di Tancredi Vasile

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