Vacanza

Quella mattina il dottor Armando Leoni si svegliò. Spense la sveglia dell’orologio e si sedette sul letto. Diede un’occhiata in giro e si accorse che l’unico elemento che avrebbe rimosso era un crocifisso bronzeo appeso al muro. Si alzò, lo sollevò dal chiodo e lo ripose nel secondo cassetto del comodino, con buona pace del suo sguardo triste. La parete spoglia diede all’uomo una strana sensazione di pienezza che lo costrinse a rimanere in contemplazione per qualche secondo. Un nuovo sguardo all’orologio ruppe l’idillio: la giornata di un banchiere, specie uno della sua importanza, è frenetica e qualche secondo è il massimo del tempo che si può dedicare a ciò che succede in casa propria, o altrui.

Armando si fiondò in bagno e si diede una bella lavata alla faccia. Mise il dentifricio sullo spazzolino e si bloccò. Quello non era affatto il suo spazzolino, e aveva tutta l’aria di essere già stato utilizzato da qualcuno. Fu solo in quel momento che si ricordò della sera prima: uomini armati con voci familiari erano entrati nell’ufficio all’ultimo piano, gli avevano messo un cappuccio nero in testa e lo avevano trascinato in auto. Era seguito un viaggio su una strada piena di buche e una porta che si era chiusa alle sue spalle.
Aveva dormito la notte in cui era stato rapito?
A quanto pare, e beatamente. Si sedette sulla poltrona e si tolse i pantaloni del vestito infilati poco prima in fretta e furia. Cercò di mettere in ordine le idee, andò alla porta e realizzò di non poter uscire dall’appartamento. Ciò che lo sorprese, però, fu il fatto di non aver la minima intenzione di provarci. L’aveva visto in decine di film: chi cerca di forzare la serratura o di abbattere la porta poi deve fronteggiare la guardia all’esterno, che nel migliore dei casi ti rompe uno zigomo con il calcio della pistola. Sempre che queste regole si possano applicare a dei dilettanti, pensò Armando. Si era fatto quest’idea sin dalle prime battute della vicenda. Le voci degli uomini incappucciati gli erano sembrate esitanti, quasi riverenti nei suoi confronti. L’auto che avevano utilizzato per il trasporto era troppo piccola, tanto che erano stati costretti a tenerlo vicino al finestrino facendogli sbattere la testa contro il tettuccio a ogni asperità della strada. Infine, quell’appartamento era troppo ben tenuto per essere solamente un luogo di detenzione: probabilmente era la casa di uno dei rapitori. Tre indizi fanno una prova e Armando poteva stare sereno, sicuro che la polizia sarebbe arrivata presto e l’avrebbe salvato.

Certo, salvare era una parola grossa. A casa lo aspettavano due figli adolescenti buoni solo a chiedere soldi e a marinare la scuola, nella migliore delle ipotesi sarebbero diventati membri di una baby gang. Per non parlare della moglie, che non perdeva mai l’occasione di fargli notare le sue mancanze come padre e come marito, sempre con la sentenza pronta da pronunciare.
All’improvviso Armando Leoni rimase folgorato: il rapimento era una vacanza, una benedizione! Dopo vent’anni spesi ad accumulare promozioni, guadagnare, badare alla famiglia e tirar su quei due mezzi delinquenti senza mai fermarsi, finalmente per lui era arrivato, anche se in modo un po’ atipico, il momento di pensare solo a se stesso! Fantasticando su titoli dei telegiornali accompagnati da sue foto, si addormentò sulla poltrona sussurrando “Un Leoni in gabbia”.

Una settimana dopo Armando giaceva in panciolle sulla solita poltrona. Ragionò sul rapimento, che probabilmente meritava un premio per la povertà di emozioni: nessun colloquio con il capo dei carcerieri, nessuna estorsione di informazioni sui suoi colleghi, nessun tentativo della polizia di liberarlo. La noia cominciava a impadronirsi di lui quando, come ogni giorno, da sotto la porta arrivò il vassoio del pranzo. Il banchiere riceveva solo due pasti al giorno, ma non si lamentava. Nemmeno a casa faceva colazione: non aveva tempo. Tra i soliti cibi informi del discount, però, c’era qualcosa di nuovo. Armando raccolse a fatica un pezzo di carta tutto stropicciato e pieno di sugo, su cui erano appena leggibili la data dell’indomani e un’ora. Che peccato, pensò. Mi rilasciano proprio adesso che stavo iniziando a godermi la vacanza.

Il giorno dopo il dottor Leoni si alzò dal letto di scatto, quasi dovesse prepararsi per il lavoro. Corse in bagno e si pettinò con cura in preda a sensazioni contrastanti. La piacevole detenzione in quella prigione dorata stava per finire, ma in compenso sarebbe apparso in televisione. Tra qualche minuto, sotto gli occhi dell’Italia intera, avrebbe riabbracciato i familiari e strappato una lacrima ai presenti, ritornando in “libertà” con stile.
Forse, per l’occasione, Ada sarebbe persino tornata a baciarlo dopo tanto tempo, prima di andare a dormire nella stanza degli ospiti. Carlo ed Enrico si sarebbero aspettati un regalo per festeggiare papà. E di quelli grossi. I colleghi, compresi quelli che avevano dato il benestare per il rapimento, lo avrebbero accolto in ufficio con grandi elogi e strette di mano, almeno nelle prime due ore. Poi sarebbero tornati a odiarlo come sempre.
Armando non era più così sicuro di voler tornare in libertà.

La porta si aprì puntuale, allo scoccare dell’ora stabilita. Con grande sorpresa Leoni riconobbe il carceriere: “Ciao, Cavalli! Sei anche tu un rapitore? Non mi sembravi il tipo!”

“Sarebbe Cavallo, comunque,” rispose il ragazzo. Era disarmato e sudato.

“Sì, vabbè, che importa?” Armando non era mai morbido con gli stagisti. Devono subito capire che il mondo del lavoro è un mondo di squali, ripeteva sempre.

“Mi ascolti ora, per favore. I capi hanno dato un ultimatum al governo, che però ha deciso di non trattare. Stanno giustiziando un funzionario al giorno finché non si trova un accordo e domani toccherà a lei!”

“Davvero?” Leoni fu sorpreso dalla propria risposta. L’intera vicenda gli si presentava ora sotto una luce del tutto nuova.

Fu in quel momento che decise di andare fino in fondo.

“Mi ascolti, signore, la prego! Gli altri sono usciti per l’esecuzione di oggi e se ci sbrighiamo possiamo fuggire. È la nostra unica occasione!” Lo stagista era pallido come uno straccio.

“Caro Cavalla, non sei buono nemmeno a fare il rapitore.”

“Sempre Cavallo, signore.” Il ragazzo si asciugò le lacrime che gli rigavano il viso. “È solo che non ce la faccio proprio! Io non voglio uccidere nessuno! Lottare per migliorare la situazione è giusto, ma non in questo modo. Non trasformandoci in assassini!”

“Che belle parole, Cavallo. Si vede che leggi i libri impegnati. Ora però chiudi la porta e torna al tuo posto. Non preoccuparti per me. Lascia che mi goda fino alla fine questa vacanza.”

Si voltò e andò a sdraiarsi sul letto.

“Signore, la pre…”

Un rumore che graffia i timpani si diffuse nella stanza e un attimo dopo il corpo del giovane giaceva sul pavimento senza vita, con un buco nel cranio da cui zampillava sangue con intensità sempre minore.
In quel momento, all’unisono, tutti i muscoli del dottor Leoni si irrigidirono. Un uomo incappucciato e massiccio apparve sull’uscio. La pistola ancora fumante stretta nella mano destra.

“Ciao Armando. Come avrai capito, sono io che comando qui.”

Il banchiere non rispose. Si limitò ad abbassare lo sguardo. Non riuscì a trattenere un sorriso.

“A quanto pare i vostri amici politici sono sempre disposti a guardare le spalle alle banche, ma non agli uomini che le rappresentano.”

L’uomo alzò l’arma fino a incontrare la fronte di Armando, che si sentì pervadere dal freddo del metallo. Non si è mai pronti per questo, nemmeno dopo una vacanza.
Carlo, Enrico e Ada assistettero attoniti alla scena, che venne trasmessa in diretta televisiva all’interno di un’edizione straordinaria del telegiornale. Piansero.

 

Un racconto di Marco Broggini

Illustrazione di Leiparlatroppo

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