La torre incantata

Dario abitava in una palazzina tutta storta e consumata.

La sua mamma l’aveva scelta perché accanto ci cresceva un immenso campo di violette.

Man mano che gli anni passavano, però, le violette diminuivano, e i calli sulle mani della mamma si moltiplicavano, così come aumentavano tanti altri piccoli acciacchi che le avevano fatto venire un perenne ghigno schifato.

Un giorno, l’immenso campo di violette, che ormai di violette non ne aveva più, fu trasformato in una discarica.

Era un posto strano e affascinante, una versione più grande dello sgabuzzino di casa in cui la mamma infilava di tutto, e Dario aveva il permesso di andarci, purché non si allontanasse troppo.

C’erano pile di automobili accatastate l’una sull’altra, e reti arrugginite che un tempo avevano sostenuto materassi e cuscini, ma su cui si poteva ancora saltare, e armadi sfondati pieni di sacchi di vestiti, e un mucchio di altre cose con cui il bambino giocava.

Aveva trovato un cestino di vimini grande come una macchina, ai suoi piedi, tutta floscia, c’era una tenda enorme, di un tessuto strano, che se ci passavi le mani sopra troppo velocemente te le bruciavi.

Dario immaginava che fosse fatta così la cima delle torri di certe favole che gli leggeva la madre prima di dormire, dove bellissime principesse dai capelli soffici e i vestiti vaporosi aspettavano di essere salvate da un eroico principe.

Dario aveva trovato un vestito azzurro, così lungo che ci inciampava, e un paio di scarpe bianche con il tacco, simili a quelle che la mamma indossava solo durante la festa per il patrono del paese, l’unico momento dell’anno in cui sembrava uguale a tutte le mamme dei suoi compagni di classe: sorrideva a tutti, parlava con il parroco e si metteva perfino in testa alla processione.

Nei giorni in cui entrava nella torre infilava quei vestiti, posava sul capo un asciugamano di un giallo sbiadito, e immaginava che faccia avrebbe avuto l’eroe che un giorno sarebbe venuto a liberarlo, magari cavalcando un drago o a bordo di un tappeto volante, ma c’era sempre e solo un’altra persona nel suo giardino delle meraviglie: il vecchio Zoppo.

Gli aveva detto di essere il custode della discarica, e alla sua mamma non dispiaceva che fosse lì, anzi era contenta che ogni tanto desse un’occhiata a Dario, poiché tutti in paese sapevano che lo Zoppo era un brav’uomo a cui però era capitata una cosa brutta in gioventù, quando era un calciatore.

Nemmeno a Dario dispiaceva la compagnia del vecchio, specie quando si trasformava in Capitan Uncino, se il bambino diventava Peter Pan.

Lo Zoppo spiegò a Dario che la sua torre incantata un tempo era una mongolfiera che a un certo punto aveva smesso di volare, come in quel film dove Peter Pan era cresciuto e non ricordava più come si faceva ad avere pensieri felici.

Un pomeriggio Dario stava passeggiando con la sua mamma per le vie del centro, quando in una vetrina scorse un palloncino attaccato a un piccolo cestino. Il palloncino era di un bel rosa confetto e sul cestino erano disegnate tante violette.

«Guarda, mamma, è così una mongolfiera?», chiese emozionato.

La donna osservò il contenuto della vetrina con la solita smorfia di disappunto.

«Quella è un abat-jour».

«Ma sono così le mongolfiere?».

«Sembra una mongolfiera, ma non lo è. Ne ha soltanto la forma».

«Posso averla, mamma? Ti prego».

«Non preferiresti quella?», domandò indicando un’altra lampada a forma di palla da basket.

Il bambino osservò l’oggetto e scosse la testa

«Allora andiamo, che è tardi», sentenziò lei.

Dario strizzò gli occhi, cercando di non piangere, e obbedì.

Quella sera, quando la mamma andò a letto, sconfortato dal mancato acquisto, il bambino restò a lungo a girarsi nel letto sentendo una fame strana attorcigliarli lo stomaco.

Era già successo che desiderasse cose che non poteva avere, ma non era mai stato così brutto.

C’era solo un posto in cui si sarebbe sentito meglio, ma la sua torre era troppo lontana e lui non aveva il permesso di uscire così tardi.

Decise di sgusciare fuori dal letto e camminò silenzioso lungo il corridoio fino alla porta del ripostiglio.

Entrò e si avvicinò all’angolo in cui erano riposte le scarpe.

Prese quelle bianche della festa e provò ad infilarsele, ma i suoi piedi erano troppo piccoli e sgusciavano in punta, lasciando troppo spazio tra il tallone e la parte posteriore delle calzature.

Barcollando un po’ si avvicinò a una mensola e afferrò una manciata di cotone per riempire le parti vuote.

Finalmente stabile sulle gambe si guardò i piedi, sorridendo come faceva la sua mamma in quell’unico giorno all’anno in cui le indossava.

La porta dello sgabuzzino fu spalancata di colpo, e Dario sbiancò alla vista dell’espressione terribile sul viso della madre.

«Ti avevo detto di non farlo mai più».

Lo riaccompagnò in camera sua, ma non prima di aver chiuso il ripostiglio a chiave.

Per due giorni non gli rivolse la parola, impedendogli di uscire a giocare nel suo giardino delle meraviglie.

Il terzo giorno lo Zoppo suonò al loro campanello, impensierito dalla lunga assenza del bambino dalla discarica, e lui e la mamma si chiusero per un po’ in cucina.

Quando la donna uscì dalla stanza aveva gli occhi molli come un budino.

Il pomeriggio seguente non solo gli permise di tornare a giocare nel giardino, ma gli fece trovare sul tavolo da pranzo quell’abat-jour a forma di mongolfiera.

Dario la portò con sé, scese i gradini a due alla volta, correndo dallo Zoppo per mostrargli il suo tesoro, e un’ora dopo, seduto con lui nella cesta, ancora ne parlava.

«Ma secondo te può volare? Mamma dice che sembra una mongolfiera, ma non lo è. Però è proprio come una mongolfiera, no?», domandò il bambino quasi senza respirare.

Il vecchio fissò per un po’ l’abat-jour con aria pensierosa, poi annuì.

«Conoscevo un bambino che da grande voleva giocare a basket. Era molto bravo, ma i suoi genitori volevano che diventasse un ragioniere, o qualcosa del genere, così non si sarebbe mai fatto male, com’era successo a suo padre in gioventù».

«E com’è finita?».

«Ha obbedito ai suoi genitori. Ma una volta diventato grande non li ha più voluti vedere. La sua mamma era così triste che ha deciso di andare lontano, e il papà… Beh, è rimasto triste anche lui».

«Ogni tanto anch’io vorrei non vedere la mamma».

«Ma poi passa, no? Le vuoi bene».

«Certo».

«Bravo bambino. Ora, torniamo alla tua lampada. Se tu ci vedi una mongolfiera, allora diventerà una mongolfiera. Ci metteremo un bruciatore e in qualche modo la faremo volare».

«Davvero?».

«Davvero».

Dario si rigirò l’abat-jour fra le mani e tracciò con i polpastrelli i contorni delle violette, mamma aveva ragione: erano proprio i fiori più belli che avesse mai visto.

Un racconto di Giovanna Giordano

Un’illustrazione di Matteo Perdon 

Giovanna Giordano

Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.

2 thoughts on “La torre incantata

  1. Bellissimo racconto signorina Giordano. Lei e proprio una brava scrittrice. Il suo racconto mi ha emozionato. Complimenti. Un suo grandissimo fan. Marco Cavallini

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