Si vola

“Non è una mongolfiera.”

“Che cazzo stai dicendo?” Dario tenne il fucile più in alto, puntato contro la faccia del vecchio. “Certo che è una mongolfiera, cazzo.”

“Non è proprio una mongolfiera. È un pallone a elio, e se vuole saperlo è pure ancorato a terra.” Il vecchio sembrava piuttosto calmo. “Non può mica andare in giro.”

Dario fece un passo in avanti, impugnò il fucile dalla parte della canna e diede una mazzata al cranio dell’uomo. Pensava che sarebbe svenuto, ma gli ci vollero altri due colpi prima che perdesse i sensi. Sotto i loro piedi, centocinquanta metri sotto i loro piedi, una piccola folla di persone guardava verso l’alto, in direzione della mongolfiera. O del pallone a elio, o quello che cazzo era.

 

Era andato a puttane tutto, e tutto molto in fretta. Quel pomeriggio, Dario era uscito di casa con un obiettivo chiaro, stampato a fuoco nel cervello. Per la prima volta da mesi, da quando era entrato in cassa integrazione, aveva una missione. Uno scopo.

L’idea lo aveva folgorato quella mattina, a letto: avrebbe ammazzato il sindaco. Cristo, perché non ci aveva pensato prima? Era suo destino ammazzarlo. Quel porco e la sua amministrazione non facevano che proporre politiche di integrazione e altre cazzate, e intanto la città brulicava di finti profughi che rubavano il lavoro e facevano casino. Intanto lui, il sindaco, mica doveva vivere di fianco a marocchini che fumavano porcate con il narghilé, che fino alle due di notte ascoltavano brutte copie di neomelodici napoletani. Mica rischiava di perdere il lavoro perché un cinese gliel’aveva fregato. Buonista, porco buonista.

E così, dopo pranzo Dario si era messo in cammino. Perché non solo l’aveva folgorato l’idea di cosa avrebbe fatto; sapeva perfettamente anche come l’avrebbe fatto. Quel giorno c’era il (quante parole fighette usavano i buonisti sinistroidi) Convegno sulla riqualificazione delle zone urbane multiculturali: il sindaco sarebbe salito sul palco, davanti al palazzo del Comune, e avrebbe fatto il suo discorso. E poi Dario gli avrebbe sparato, sorvolando il centro con una mongolfiera e scomparendo all’orizzonte. La forza del piano stava nella sua semplicità.

Quindi aveva preso il fucile di suo nonno, un Carcano della Seconda Guerra Mondiale, e lo aveva avvolto in un telo per poterlo portare in giro. Il fucile era vecchio, sì, ma in perfette condizioni, perché nella sua famiglia si portava ancora rispetto per i bei tempi — e a Dario il saluto romano era stato insegnato quando andava alle elementari, affinché portasse avanti la buona tradizione. Ora, a distanza di trent’anni, dopo il pranzo e il caffè, si era messo il fucile sotto braccio ed era uscito nel sole pomeridiano.

Il quartiere non era più quello di una volta. Erano sempre state case popolari, sì, ma almeno prima si sentiva parlare italiano per le strade. I bambini andavano a scuola da soli, maledizione. Dario aveva lasciato che i piedi lo portassero in direzione della vecchia mongolfiera. Cazzo, l’avevano sempre chiamata così. Mongolfiera. Non che lui ci fosse mai salito, oh no. Da ragazzino, Dario soffriva di vertigini. Ma aveva sempre dato per scontato che si potesse muovere, come una mongolfiera autentica; e invece era solo un pallone ancorato a terra, un’altra cinesata scadente nel suo dannato quartiere.

Insomma, poco prima che arrivasse alla mongolfiera — una cinquantina di metri più indietro, all’angolo della piazza — un negro gigantesco gli aveva chiesto se voleva da fumare, buona amico, molto buona, faccio buon prezzo. Lui per poco non aveva tirato fuori il fucile per fargli scoppiare quella faccia da culo. Ma alla fine si era controllato, gli aveva detto di andare a farsi fottere e basta, bifolco di merda, ridammi i Marò, e se n’era andato per la sua strada. Aveva cose più importanti per la testa.

Poi, quando era arrivato alla mongolfiera, aveva cominciato a innervosirsi.

Le cause del nervosismo erano principalmente due. Numero uno, era arrivato proprio nel momento in cui la mongolfiera stava atterrando dopo un volo: vedere il pallone gigante che ondeggiava, la cabina dei passeggeri che oscillava e tremava, gli attorcigliò le budella come spaghetti. Numero due, c’era una fila fottutamente lunga per il prossimo volo: almeno trenta persone. Mica poteva portarle con sé.

Allora aveva tirato fuori il fucile. Con quello in mano aveva saltato la coda, aveva fatto scendere in fretta i passeggeri e aveva chiesto al vecchio di risalire con a bordo lui soltanto. Va bene, aveva risposto il vecchio. Dario si era chiesto se fosse lo stesso uomo che c’era quando lui era bambino, ma non riusciva a ricordarsi. Poi, mentre la gente ancora urlava e si disperdeva e chiamava la polizia, la mongolfiera si era sollevata da terra schizzando in aria. E prima di rendersi conto che, in effetti, soffriva di vertigini ancora adesso, Dario si era ritrovato sospeso in cielo.

 

Dunque, la mongolfiera era in realtà ancorata al suolo.

Il vecchio dormicchiava con tre grossi bernoccoli sulla fronte, e Dario si chiese come cazzo si facesse a tornare sulla terraferma. Perché, a quanto pareva, quel giorno il sindaco non lo avrebbe ammazzato. Porco buonista.

Un piccolo motore tossiva in un angolo della cabina. Era quello che controllava la fune d’acciaio, che faceva salire e scendere il pallone, e Dario si rese conto di non avere la minima idea di come farlo funzionare. Si sporse per guardare la fune che correva dalla cabina al suolo, e guardò in basso.

La testa prese a girargli, la morsa che gli stringeva lo stomaco si serrò all’improvviso. Pensò che non si sentiva molto bene, poi vomitò il pranzo di sotto.

Allora le sentì, ancor prima di vederle: sirene della polizia. Porca puttana, venivano per lui. La sua missione, il suo scopo, tutto in fumo.

E laggiù, poco lontano da dove l’aveva incontrato, c’era lo spacciatore. Rimpicciolito e nervoso, correva lanciandosi occhiate alle spalle. Aveva sentito le sirene e se la stava dando a gambe.

Eh no, amico faccio-buon-prezzo. Col cazzo che scappi. Cercando di controllare la nausea e il tremolio delle gambe, Dario appoggiò il calcio del fucile contro il petto e prese la mira. Era un colpo difficile, ma non c’era vento. Il negro veniva nella sua direzione. Forse non avrebbe tolto di mezzo il sindaco, ma uno di quelli in meno era pur sempre un’opera di bene civile.

Io non ci torno in cassa integrazione.

Tirò il grilletto.

Il vecchio fucile Carcano, che suo nonno aveva usato durante la guerra e che suo padre aveva lucidato per due decenni, non fu all’altezza della sua reputazione. La cartuccia rimase nella camera di scoppio: esplose a un centimetro dalla sua faccia, sfracellandogli il cervello.

 

Un racconto di Alfredo Vazzoler

Illustrazione di Candida Leonforte

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