Il caso Rotko

Elena Rotko era già scomparsa da due anni quando capimmo che se avessimo riconosciuto ad Alexander K il titolo di ragazzo più brutto della scuola, lo avrebbe rifiutato offeso. A quindici anni, solo per mancanza di ambizione, si sentiva il ragazzo più brutto della città, e in effetti lo era: grasso, con gli occhiali e l’apparecchio, aveva il volto e la schiena ricoperti di sangue e di brufoli circondati da peli neri che disegnavano piccole aiuole arricciate attorno alle cicatrici bianche e alle smagliature. Se solo Alexander ne avesse avuto contezza, avrebbe descritto il suo corpo come una tavola di SimCity 1: stessa risoluzionegiocabilità identica, ma non c’erano disastri da invocare per distruggere tutto e ricominciare da zero. Sbagliando, avremmo potuto suggerirgli che il disastro era inscritto nella sua pelle, era la sua pelle, ma Alexander sapeva che la catastrofe proveniva dal profondo, da qualcosa dentro di lui che non funzionava, qualcosa di marcio e indifeso. Non si trattava di un caso.

La parte che più odiava del suo corpo erano i denti. Si torcevano come attirati da un potentissimo magnete piantato sotto alle labbra, che annullava la forza di gravità e sembrava volerli estirpare alla radice. Erano denti incredibilmente lunghi, incredibilmente gialli, paurosamente affilati; erano armi che ci spaventavano e che secondo Alexander non sarebbero mai più tornati a posto se avesse continuato a masturbarsi come faceva.

Si era convinto che la maledizione che corrodeva il suo corpo era stata lanciata due anni prima, quando Alexander non aveva permesso che Elena Rotko venisse ritrovata. Da allora, una lunga lista meticolosamente aggiornata di indirizzi nei quali compariva la lettera x dopo le tre w era diventata per lui un’ossessione: ovunque si trovava, a casa, a scuola, per strada, nel suo letto, in nostra presenza oppure no, Alexander si masturbava furiosamente, doveva farlo; ma nei suoi occhi la paura e la vergogna non erano dettate dalle presunte ricadute di quella colpa sul suo corpo: ad annichilirlo era la totale trasparenza che i suoi gesti, la sua mostruosità, la sua persona assumevano all’ombra dei nostri sguardi. A scuola lo scambiavano puntualmente per il suo compagno di banco, pure se era seduto da solo; i professori lo segnavano assente anche quando era presente. Alexander non parlava, non aveva amici, era diventato invisibile. Per noi non era nessuno, al di fuori della sua colpa. 

L’ultima estate di Elena Rotko fu lunga e ricca di giorni in cui era sempre festa. Aveva superato con successo gli esami di terza media e i genitori acconsentirono a una vacanza in Grecia con le sorelle. La più grande delle tre aspettava una bambina, Elena sarebbe diventata presto zia. 

La sera del 14 settembre chiamò casa per avvisare del suo ritardo e di aspettarla per cena, e i giorni successivi sua madre ripeteva la stessa cosa, stava così bene con noi, non può essere fuggita.
Di Elena Rotko non sapevamo nient’altro, se non che ci piaceva. 

I successi dei fratelli di Alexander erano proporzionali alla sua mancanza di interessi. Erano più grandi, più belli e pieni di vita. I suoi genitori avevano deciso che non ci fosse nulla che Alexander amasse fare, eppure lui sentiva che, a ogni sua iniziativa, corrispondeva una loro ripercussione punitiva e violenta. Se gli avessimo chiesto di descriverci quella sensazione strisciante, Alexander ci avrebbe restituito l’enigma minaccioso di un divano sfondato, la diversione di uno sguardo, una mano alla fronte, una sagoma incenerita. Quando il padre sbagliò strada e si ritrovarono nella pancia ingarbugliata di un serpente chilometrico di automobili ferme, non potevamo sapere che pur di non sfidare il caso Alexander avrebbe lasciato quelle immagini libere di soluzione nella sua mente. Non avrebbe mai raccontato a nessuno ciò che aveva visto e aveva fatto. Nessuno avrebbe mai potuto incolparlo.

La fila di automobili partiva dall’ingresso della statale e proseguiva fino al centro. Era il più grande ingorgo che avessimo mai visto. Pensavamo di essere incastrati lì da mesi, ma erano passati soltanto due giorni dalla sparizione di Elena Rotko. Il padre di Alexander spense il motore e cominciò a gridare. Avremmo potuto andare ieri, disse alla moglie, se tu non avessi dormito tutto il pomeriggio. Ma quale dormito, disse lei, sei tu che hai fatto tardi. Quel divano, disse lui, prima o poi lo farò sparire. Provaci, disse lei, non aspetto altro. Anzi, disse lui, gli darò fuoco. Non farmi ridere, disse lei, non sei nemmeno in grado di orientarti.
Parlavano senza guardarsi, urlando come se Alexander non fosse presente. La madre fumava, il padre aveva le mani incollate al volante. Quando tornò il silenzio, Alexander guardò fuori dal finestrino e si sentì avvolto da una bolla che andava al di là del suo riflesso sul vetro. Sto scomparendo, pensò sollevato, e allora capì che, se era invisibile, poteva fare quello che voleva. Scese dall’auto mentre la madre si portava la mano sinistra alla fronte, superò con cautela un gruppo di automobilisti che si era formato sul bordo della strada, scavalcò il guardrail e si mise a correre, finalmente libero. Corse nei campi attraversando sciami di insetti rumorosi, costeggiò un piccolo ruscello e si ritrovò di fronte a una radura.


Elena Rotko era lì, nascosta dalle foglie dentro a un albero cavo. Era nuda, il corpo coperto di graffi e sangue e lividi oscuri. Il volto sprofondava nella terra, i capelli raccolti in una treccia di fango lasciavano scoperta una ferita sulla nuca. Era un buco nero grande quanto una testa di gatto, pensò Alexander avvicinando la mano. Le tastò timidamente le spalle, poi salì sul collo con un dito e lo infilò nella ferita. È umida, pensò, sembra bagnata.

Calò la notte.

Non avremmo mai saputo cosa aveva visto, né cosa aveva fatto. Eppure, ogni volta che incontravamo il suo sguardo, Alexander sembrava sul punto di tradirsi. Prima o poi, lo sapevamo, avrebbe parlato. Presto avrebbe ceduto e non avrebbe resistito ancora per molto alla tentazione di raccontarci la sua prima volta, archiviandola come un caso. 
Si sarebbe stancato. Non dovevamo fare altro che aspettare.

 

Un racconto di Pierluca D’Antuono
Illustrazione di Alessandro Buro

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