Il primo snuff della storia

Oscar chiuse gli occhi per assaporare la fresca brezza parigina che spirava delicatamente lungo il corso della Senna: pensò che a quel delizioso profumo sarebbe mancato solo un gustoso odore di sangue.

Tirò fuori l’orologio dal taschino, una patacca placcata d’oro, ma che all’occhio inesperto dava l’impressione di essere un oggetto di gran valore: mancavano venti minuti alle nove, doveva sbrigarsi. Infilò rapido una delle viuzze del quartiere latino, dove artisti e musicisti si incontravano nelle taverne per sorseggiare vino e pastis, e si mise in coda di fronte a un anonimo teatro con il resto della folla, fremente di assistere alla dimostrazione di due fratelli inventori, che si diceva fossero stati capaci di infondere vita alle immagini. Oscar ne aveva sentito parlare un gran bene, ma mentre stava attendendo, non riuscì che a sentire il presagio della delusione, al contrario dei signori e delle signore che saltellavano sulle punte per vedere impazienti se le porte della sala non fossero già state aperte.

“Sarà uno spettacolo sensazionale!” disse una giovane dama al suo cavaliere, entrambi vestiti in maniera elegante, di certo inusuale per un quartiere di ubriaconi sedicenti artisti, che seduti alla taverna di fronte si incuriosirono di quella folla. Tra loro, gli artisti, c’era anche Jean-Marie, appestato di vino, che alzò il calice in direzione di Oscar, il quale ricambiò il saluto senza troppa convinzione. Jean-Marie era certamente un valido pittore e di larghe vedute, Oscar lo scoprì quando gli aveva chiesto di ritrarre una giovane prostituta di Pigalle mentre affondava le mani bianchissime nelle rossissime interiora di un maiale sventrato. Il dipinto però non piacque, scandalizzò qualsiasi gallerista e Jean-Marie non aveva fatto altro che incolpare la mentalità borghese che attanagliava la città. Oscar gli aveva dato ragione per metà: vero era che i borghesi e i benpensanti la facevano da padrone sull’arte, ma era altresì vero che la colpa era di artisti che a tutti i costi volevano affermarsi usando gli strumenti di maestri che di quella borghesia furono le colonne portanti. Oscar tolse lo sguardo da Jean-Marie, pensando a quanto fosse futile per un artista del suo talento voler ad ogni costo sedere sul seggio di giudice che quelli come loro stavano cercando di scalzare –questa frase, pensò Oscar, gliel’avrebbe sicuramente rubata qualcuno, un giorno.

Quando fu sul punto di essere vinto dallo sconforto e voltarsi per tornare nella sua casetta marcescente, un boato accompagnò l’apertura del teatro.

Madames et Messieurs! Il cinematografo Lumiéres vi dà il benvenuto!”, annunciò un pomposo strillone, che solo in seguito scoprì essere proprio il minore dei Lumiéres, i due presunti rivoluzionari dei salotti signorili.

“Che meraviglia!” sospirò estasiata la dama al suo cavaliere, stringendoglisi al braccio.

“Alla buon ora!” sentenziò invece Oscar, guardando il suo orologio fasullo mentre la coppia lo fulminò con sguardi di disapprovazione, forse per il suo commento, forse per il suo baracchino, forse per la sua sola esistenza.

La fila si mosse a intervalli di bigliettaio, Oscar con loro, una moneta da un franco pronta tra le dita.

Tutti presero velocemente posto, in una sala completamente buia. Oscar si chiese il motivo di quell’oscurità –come avrebbero visto lo spettacolo?- ma da un lato se ne compiacque perché senza l’ostacolo della vista, l’odore delle dame si faceva strada attraverso il labirinto di profumi ed essenze con cui si costringevano quotidianamente ad appestarsi: per Oscar, nessun profumo equivaleva quello della carne e degli umori.

Il maggiore dei fratelli Lumiére, se possibile ancor più pomposo del minore, salì sul palco illuminato da un occhio di bue, con un grosso drappo bianco di forma rettangolare appeso alle spalle, dando il benvenuto al pubblico e spiegando loro le meraviglie che con suo fratello aveva compiuto, una fantasmagoria visiva nonché un’esperienza di illusione dei sensi capace di portar chiunque fuori dalla sua vita in un magico volo tra le pieghe della realtà. Oscar aveva sentito discorsi più o meno identici negli studi dei dagherrotipi, di medium indiani, di escapisti e di pittori d’avanguardia, uscendone sempre deluso: prese quindi ad odorare con discrezione la spalla della signorina seduta accanto a lui, aiutato dall’oscurità della sala. Mentre il signor Lumiére annunciava che nessuno sarebbe uscito con gli stessi occhi da quello spettacolo, Oscar pensava che sarebbe stato delizioso prendere gli occhi di quella dametta e portarseli a casa.

Ma ecco che l’ampolloso baffone scese dal palco e un fascio di luce s’andò a schiantare sul drappo bianco, facendo sussultare Oscar per la paura di essere esposto nel suo dileggio. Si ricompose per contemplare l’immagine di una stazione ferroviaria.

“Come mi aspettavo”, sospirò Oscar, “è un’immagine morta”. Fece quindi per alzarsi bofonchiando, “sarà meglio che mi ridiano quel franco”, quand’ecco che i fiati del pubblico si bloccarono all’unisono: all’orizzonte, una colonna di fumo apparve accompagnata da una locomotiva. A bocca aperta, Oscar tornò a sedersi. La locomotiva si fece lentamente ma visibilmente più grande, “meraviglioso, n’est-ce pas?”, chiese la giovane signorina dagli splendidi occhi e Oscar non poté che annuire ridacchiando insieme a tutti di quel simpatico divertimento.

Ma bastarono pochi secondi perché le risate di meraviglia si placassero e si tramutassero in un nervoso silenzio: la locomotiva avanzò, senza accennare a rallentare. Oscar ne fu rapito, così verosimile, così reale, così in avvicinamento, e il suo cuore, fermo da anni, pompò una miscela di disagio e agitazione, per nulla spiacevole. Si fece sempre più vicina, la fumante locomotiva, ora grande come metà dello schermo, e immancabilmente qualcuno gridò e con lui un altro e un altro ancora e in meno di un paio di fotogrammi i deboli di cuore già picchiavano sulle porte del teatro gridando aiuto, mentre gli altri si schiacciarono nelle poltroncine graffiando i braccioli e stringendo i denti. E Oscar, il mecenate di ogni perversione, lo stomaco più duro di Parigi, che nel terrore si beava, provò una fitta di paura che divenne presto panico e con sua immensa sorpresa una stretta alla mano sinistra, la stretta della signorina ultimo oggetto dei suoi depravati desideri che si avvinghiò a lui come una bimbetta al padre di fronte a un terrificante clown. Oscar sorrise, sorrise senza controllo mentre una lacrima scendeva lungo il corso irsuto di barba della guancia, sognando l’impatto e le teste spiaccicate di tutti i presenti e vide gli incantevoli occhi della signorina sgusciare fuori dalle orbite frantumate e brillare come stelle su un cielo di sangue e metallo.

Le luci si riaccesero e la paura scemò presto. Oscar si tastò il petto, il cuore non la smetteva, pompava e pompava con frenesia: era vivo, dannazione, vivo!

Mentre tutti i rispettabili presenti constatavano di essere ancora in vita, i due fratelli Lumiére, maledetti geni, salirono sul palco ora completamente illuminato. Oscar fu il primo ad applaudirli, così forte da farsi bruciare i palmi.

“Questo è la rivoluzione del secolo venturo, madames et messieurs! L’illusione della vita creata giocando con la luce e il movimento!”

Quella fu senza dubbio la miglior rappresentazione della morte a cui Oscar ebbe mai il piacere di assistere.

“Immaginate, ora, quante meraviglie questa invenzione porterà nei nostri cinematografi! Immaginate le strade di Parigi, coi suoi amabili abitanti, impresse per sempre nello splendore di una comune giornata di spese e passeggiate!”

“E perché non le strade di Parigi coperte del sangue di guardie armate, mentre rivoltosi gettano calcinacci sulle loro teste, dai tetti di palazzi divorati dalle fiamme?”, pensò Oscar.

“La gita domenicale di una famiglia in campagna, coi bambini che giocano a rincorrersi e gli adulti che sorseggiano vino seduti sull’erba!”

“La tortura cruenta di un’impersonatrice di Maria Antonietta, con conseguente stupro, sui prati di Versailles, magari”.

“La storia di amore di un giovane uomo, a partire dal momento dell’incontro, passando per il corteggiamento e la conquista, fino al tragico momento della separazione!”

“La vicenda di un assassino, a partire dalla scelta della vittima, per poi vederne il pedinamento e il fantastico momento in cui avrebbe calato la sua mannaia sulla testa della malcapitata!”

Gli applausi scrosciarono, Oscar applaudì a sua volta: questi due erano dei geni, la loro creazione un detonatore di meraviglie, a cui occorreva solo dare la giusta direzione.

Uscì compostamente in fila, con la signorina che ancora sconvolta si appoggiava al suo braccio. La condusse fuori, immaginando il futuro, lo vide nitido di fronte ai suoi occhi come prima vide la morte venirgli incontro. Sulla strada, Jean-Marie stava ancora bevendo. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli che oramai era morto, ma Oscar non ne ebbe il tempo: riaccompagnata a casa Mademoiselle Renard, questo era il suo nome, sarebbe corso a casa a scrivere le sue idee e il giorno seguente si sarebbe messo in contatto con quei due fratelli per saperne di più sui meccanismi ottici necessari alla creazione dei loro capolavori, ovviamente tenendo per sé gli intriganti progetti che già fermentavano nella sua mente.

Il cinematografo sarebbe stato il trionfo sull’ombra della morte, sbraitò entusiasta il maggiore dei Lumiére. Per Oscar, sarebbe stata l’irruzione della morte nella vita dell’uomo, questo pensò augurando la buonanotte alla Renard e accertandosi che nella casa non vi fosse nessun altro: una volta ottenuto lo strumento dei Lumiéres, sarebbe stata lei la sua prima attrice.

Illustrazione di Verin

Guido Zanetti

Guido nasce a Genova nel 1992. Cresce a Pavia, dove studia filosofia per tre anni e tre quarti. Corre a Torino, dove studia sceneggiatura alla Scuola Holden.

Lascia un commento