La busta

Avevo dodici anni, ed era la prima volta che passavo le vacanze estive senza i miei genitori.

La prima notte io e la mia compagna di stanza, Giuditta, una ragazzina della mia stessa età con i dentoni e i capelli a caschetto, ci eravamo infilate il pigiama lungo e avevamo deciso di dormire nello stesso letto singolo. Sotto le coperte, strette spalla contro spalla, Giuditta mi aveva detto di soffrire di insonnia, ma forse era una bugia per darsi un tono, perché si era addormentata dopo neanche dieci minuti. Io ero rimasta sveglia per un bel po’, ad ascoltare il suo respiro pesante e a leggere il numero di Focus che avevamo comprato in aeroporto.

Aprii gli occhi poche ore dopo, con la netta sensazione di aver dimenticato a casa qualcosa di fondamentale, come il phon.

Giuditta dormiva ancora. Mi ero alzata dal letto cercando di non farlo cigolare, avevo aperto la valigia e mi ero accertata che ci fosse tutto. Sotto una pila di magliette, mia madre prima della partenza aveva infilato un pacco di assorbenti. – Non si sa mai –  aveva detto, cercando di apparire rilassata. – In caso dovessero venirti, almeno hai questi.

Prima di allora non aveva mai sfiorato l’argomento, né mi aveva insegnato come fare a mettere un assorbente con le ali, dove andassero di preciso quelle ali sulle mutande.

Chissà quante cose farò in queste tre settimane, pensai una volta tornata a letto, guardando il sole timido che sorgeva fuori dalla finestra, illuminando debolmente il college e il grande parco intorno.

Nelle tre settimane successive non mi venne il ciclo, ma in compenso diedi il primo bacio a stampo della mia vita, a un ragazzino di Genova che si chiamava Federico. Era stata una cosa veloce, accanto alla macchinetta che distribuiva Skittles. Lui aveva tenuto gli occhi chiusi, io no.

Con il gruppo di italiani facevamo molte gite, visitavamo le chiese e i musei, ma a Londra non si poteva andare perché qualche giorno prima c’erano stati degli attentati in metropolitana .

La nostra guida si chiamava Paola, era una donna bionda e tozza che indossava sempre uno smanicato e un marsupio legato in vita in cui teneva i soldi di tutti. Per comprarmi qualcosa dovevo chiedere a lei.

Nel gruppo c’era anche Luca, il figlio di Paola, un ragazzo di sedici anni che il terzo giorno si era avvicinato al tavolo dove io e Giuditta stavamo pranzando. Aveva preso una sedia e ci si era seduto al contrario, in un atteggiamento rilassato.

– Da dove venite voi due?, disse rivolgendosi ad entrambe ma guardando solo me.

Aveva un folto monociglio e portava un cappellino blu sbiadito dal sole.

– Da Roma  –, avevo risposto. – E tu?

– Pure io. E quanti anni avete?

–Dodici.

–Porco dena, e a dodici anni siete ancora così piatte?

Pensai ad un modo per giustificarmi, ma non mi venne in mente niente.

Luca, nei giorni successivi, cominciò a chiamarmi “busta”. Me lo urlava quando mi incrociava per i corridoi, mi guardava ridendo con i suoi amici e io non gli rispondevo, sorridevo imbarazzata e scappavo via. Trovavo dei bigliettini nell’astuccio, scritti in stampatello.

SEI UNA BUSTA.

Ma io non sapevo neanche cosa volesse dire, e non avevo intenzione di chiederglielo. Così mi informai con Federico, quello delle Skittles.

– Che vuol dire quando mi chiama busta?

– Niente, non vuol dire niente.

– Ma dai, dimmelo.

– Non vuol dire niente, e comunque non è vero che sei una busta, esagera.

Una notte Giuditta mi svegliò, urlando che si sentiva bruciare dappertutto. Mi sentivo bruciare anch’io. Qualcuno era entrato in camera nostra e ci aveva spalmato del dentifricio sulle braccia e sulle gambe. Andammo in bagno a sciacquarci bene nel lavandino. Dopo, a letto, sentivo il cuore battermi velocissimo nelle orecchie.

– Allora? Come avete passato la notte?, mi aveva chiesto Luca la mattina successiva, durante la lezione di inglese.

– Bene –, avevo risposto.

– Niente di strano?

– Niente.

– Ma è vero quello che si dice su voi due?

– Cosa?

– Che siete due lesbiche, che dormite nello stesso letto.

Mi limitai a scuotere la testa. Giuditta faceva finta di non sentire, stava china sul quaderno a prendere appunti.

– Secondo me è vero –, aveva detto lui.

– Smettila –, dissi con voce tremante.  

Fece un ghigno e avvicinò la sua faccia alla mia, tanto che riuscivo a vedergli uno per uno i punti neri sul naso.

– Lo sai che vuol dire quando ti diciamo busta? –. Aveva l’alito acido, di chi non si lava i denti da giorni. – Busta ci chiamiamo le cesse, quelle così brutte che se te le vuoi scopare gli devi mettere una busta in testa.– Poi si girò e continuò ad ascoltare la lezione.

Tutti i martedì sera, alle otto, c’era il cinema.

I responsabili disponevano una cinquantina di sedie nella grande aula vuota vicino alla mensa, e quando tutti avevamo preso posto Paola proponeva due titoli tra la collezione di dvd del college, che noi sceglievamo per alzata di mano. Quel martedì, l’ultimo martedì della vacanza, scegliemmo Spiderman. – Bene, disse Paola allacciandosi lo smanicato, – ci rivediamo tra due ore.

Appena uscita dall’aula, Luca si era alzato dalla sedia e aveva sventolato in aria un altro dvd. – Stasera vediamo questo –, aveva detto. – Altro che puttanate varie.

Nessuno aveva osato replicare.

Sulla custodia del dvd c’era l’immagine della pancia di una donna, magra e bianchissima, che teneva in mano una rosa rossa. Il film si chiamava American Beauty.

– Busta – , mi aveva detto facendomi l’occhiolino. – Mi sa che questo ti piacerà.

Se Luca sperava ci fossero delle scene spinte, per sconvolgermi e ridere con i suoi amici, si era sbagliato di grosso. Solo una volta si vedeva di sfuggita il seno prosperoso di una ragazza, e ad un certo punto il protagonista stava per fare sesso con una tipa bionda, ma poi ci ripensava perché era molto più giovane di lui.

– Te la dovevi fare, coglione! – aveva urlato Luca allo schermo.

Io e Giuditta eravamo sedute vicine e guardavamo il film, attente.

Parlava di cose che non capivo del tutto, in certi momenti mi faceva paura e anche il finale era spaventoso.

C’era una scena poi, quella in cui la ragazza con il seno grande e il suo fidanzato guardano il filmato di una busta di plastica bianca che fluttua nel vento, leggera, insieme alle foglie.

– Busta, ci stai te! – aveva schiamazzato Luca. Rideva tutta l’aula, cercai di ridere anche io ma mi si era congelata la bocca. Pensai di alzarmi e andarmene, ma non riuscii a fare niente di meglio che rimanere immobilizzata sulla mia sedia.

“Questa busta era lì”, diceva il ragazzo alla ragazza, “danzava con me, come una bambina che mi supplicasse di giocare. E’ stato il giorno che ho capito che c’era tutta un’intera vita dietro ogni cosa”.

– Non sapevo avessi fatto l’attrice cazzo, ce lo potevi dire! –  continuò Luca.

Sentii una mano posarsi sulla mia e mi girai. Giuditta continuava a guardare il film, vedevo il suo profilo illuminato dalla luce dello schermo, non rideva insieme agli altri. Mi toccava la mano senza premere ma con fermezza, come qualcuno che non ha intenzione di toglierla tanto presto.

E allora mi sembrò che le risate si fermassero, e di ricominciare a respirare.

Un racconto di Greta Olivo

Illustrazione di Ferruccio Peruzzi

 

 

Lascia un commento