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La Testa

Francesca B. non capisce. Non capisce che quando sto seduto a guardare fuori dalla finestra, io in realtà sto lavorando. Un lavoro intellettuale, durissimo, corrosivo. Il fatto è che tutto è letteratura: la colgo in ogni sua sfaccettatura, guardando fuori dalla finestra quei due bambini che aiutano la loro madre a tenere due pesanti buste della spesa colorate e consunte, quel cane al guinzaglio di quel tipo con i capelli bianchi e arruffati, la tuta della Adidas in acetato o acrilico (faccio confusione tra i due tessuti), il cielo che da plumbeo, improvvisamente è diventato azzurro e limpido; il temporale è appena passato ed è stata una pioggia veloce: per me questa è tutta letteratura.

Un romanzo non si scrive alzandosi alle otto di mattina e mettendosi al computer per nove ore al giorno, l’idea cresce piano piano e si nutre di realtà, come una piantina che diventerà un albero. Le faccio sempre l’esempio della piantina, è calzante, spiega bene ciò che voglio dirle, ciò che vorrei che lei capisse. La piccola pianta nella testa dello scrittore che fa il lavoro intellettuale, la mangrovia che nota il più piccolo dettaglio, prende inconsciamente appunti, espande la sua coscienza.

Lei non sa che quando me ne sto al bar, seduto al tavolo, sono assorto ad ascoltare le conversazioni delle persone, a osservarle nei loro movimenti e comportamenti (i gesti di quel simil gabber con il cappellino bianco, tutto vestito di bianco, la ragazza grassa che mangia il panino, l’uomo cianotico e esoftalmico che in giacca e cravatta scrive sul suo portatile, e comunica dati a qualcuno simile a lui, itterico e allampanato come lui, attraverso un telefono di nuova generazione e un auricolare, il cinese con la maschera che continua a starnutire e infine prende il volo verso l’alto), non capisce che questa diventa tutta materia per il romanzo, cibo per la piantina che faccio crescere nel mio cervello e che un giorno diventerà albero, un grande albero,il grande romanzo italiano. Questa è la letteratura, questo è cibo, mi nutro, nutro la piantina che cresce nel mio cervello, la piantina che diventerà albero e si espanderà espandendo la mia coscienza. Guardo il cibo che ho nel piatto: pomodori, una fetta di formaggio, resti di pasta: letteratura. Fisso il ragazzo di colore, sudato, indossa una lunga maglietta bianca e occhiali da sole, fisso il ragazzo di colore che esce dal bagno: letteratura. Il samurai che si fa ammirare sventolando la Katana, gli anziani segaligni al suo tavolo, il tavolo del samurai, gli anziani con i piumini variopinti che fanno le foto al samurai che si esibisce per loro, tagliando l’aria, allontanando i presagi funesti con mosse studiate nei secoli, le mosse che gli hanno insegnato gli uomini ombra della sua dinastia, la katana che svolazza e i capelli neri e viscidi del samurai, il suo volto cereo e soddisfatto degli anziani segaligni, luci e fari intorno alla sua esibizione, la musica tecno sopra il volteggiare dell’

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Francesca B. non ha la testa per connettersi con il mio mondo, secondo lei non faccio nulla se non crogiolarmi nel mio fare nulla a letto, quando invece me ne sto ad assorbire tutto il materiale, nutrimento per la mia piantina che un giorno sarà albero, sarà il mio romanzo, il grande romanzo italiano al quale sto lavorando da mesi, da anni, ci sto lavorando da sempre, da quando mi sono abituato a fotografare il reale davanti ai miei occhi, assorbirlo con i miei occhi, i miei occhi che carpiscono i non detti, le percezioni, metabolizzano suoni, decrittano ciò che sta tra gli sguardi e le parole delle persone, si cibano di percezioni e stupori, i miei occhi fanno parte della mia testa, proprio sotto la fronte, nella zona destinata ad essi.

La testa.

Lei non ha proprio la testa per comprendere le dinamiche del lavoro intellettuale, le tempistiche, lo studio, il logorio cerebrale che ci sta dietro. Ogni volta è una discussione, un litigio, io le spiego della piantina nel mio cervello, continuamente cerco di farglielo entrare in testa questo concetto, ma lei non ce la fa, è uno sforzo inane, non ha la testa proprio, non ha la testa per rendersi conto dei miei sfiancamenti intellettuali, grida che sono pazzo e che se ne vuole andare di casa lasciandomi nel letto ad a

La testa.

La testa.

Questa sera ho deciso di porre fine alla faccenda con semplicità, ragionevolezza, le faccio vedere la piantina che è nel mio cervello, la mangrovia, che diventerà albero e quindi il mio grande romanzo italiano. Il vero grande romanzo italiano, quello che fotografa il reale e ne conserva ciò che è sottinteso, taciuto. Tutto parte dalla testa, dalla mia testa, dalla piantina che si nutre di sensazioni e impulsi, la piantina che registra ciò che carpisce e conserva tutto nella memoria, il nostro patrimonio, il grande romanzo italiano che mi/ci avvolge.

La testa. Questa sera mi raso a zero e mi aprirò il cervello con la forbice e le mostrerò la bellissima piantina che sta crescendo sana, la mangrovia, nella scatola cranica.

Francesca B. rimarrà piacevolmente sorpresa e la finirà di lamentarsi. Lei non capisce, non ha testa per capire certe cose, io ho la mangrovia. Non si rende conto che quando me ne sto sulla panchina in silenzio a guardare le macchine che passano, io sto strutturando la mia opera, sto sfamando la creaturina che sta crescendo nel mio cervello, sto dando forma al mondo che mi si palesa davanti agli occhi in forma semplice: persone, parole, macchine, movimenti. La letteratura mi fagocita.

Sarà tutto sintetizzato nel mangime che darò alla mia piantina che crescerà e diventerà albero, il grande romanzo italiano. Questa sera, Francesca B. capirà.

 

Un racconto di Paolo Gamerro

Illustrazione di Nora

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