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Torino Fist

La sua pelle è coperta di lividi blu, piena di macchie violacee, grumi di sangue sottocutaneo frastagliano il suo corpo inerte. Non ha più forze, non resiste più, è solo materia pesta ed esausta accasciata in un letto d’ospedale. Con l’occhio destro, l’unico che riesce ad aprire, volge lo sguardo al soffitto e ripensa alla sera prima. Pensa a come è stato pestato, picchiato con pugni e tallonate, a come è stato distrutto da quattro sconosciuti. Pensa a quanto abbia goduto nell’essere sbattuto a terra, nel sentire il suo cranio colpire l’asfalto, i calci alle costole e le nocche sui denti.

Non riesce a muoversi, il dolore non glielo permette, ma sorride perché anche questa volta è vivo. Sorride perché è stato capace, di nuovo, di reggere tutto l’odio che quegli sconosciuti gli hanno tirato addosso, quell’odio che stava marcendo dentro di loro.

Se li immagina svegliarsi, magari contemporaneamente a lui, dopo una bella dormita,  la più serena degli ultimi mesi,  e sedersi a fare colazione con le loro famiglie, oppure svegliare i figli per portarli allo stadio. Allunga un braccio verso il comodino: le fitte sono scintille tra le costole,  ma quell’agonia lo rende leggero, ogni livido è come il marchio di un lungo bacio. Raggiunge il telecomando e preme un dito ingessato sul tasto ON.

La televisione si accende, lui chiude gli occhi, le notizie vengono annunciate.

-Cresce la violenza a Torino: la scorsa notte un uomo è stato aggredito brutalmente da quattro ignoti e lasciato in fin di vita sul marciapiede. Si cerca di far luce sull’aggressione, ma la polizia non ha rilasciato dichiarazioni.

Galleggiando nel buio, sghignazza pensando a quanto siano stupidi e miopi i mezzi di informazione. A quelle brave persone che condivideranno una preghiera per lui, come se di lui si dovesse avere pietà, come se la sua avventura fosse un evento miserabile. Se solo sapessero quanto rende felici aiutare le persone, negli ospedali non ci sarebbe più un letto libero  e le chiese brulicherebbero di storpi sorridenti, con le carrozzine e i collari al collo.

La televisione parla di sicurezza urbana. Due esperti sociologi snocciolano rapidamente tutti i crimini che capitano quotidianamente in città: aggressioni, stupri, omicidi, rapine, vandalismo, teppismo. Parlano inarrestabili, teorizzano  sulle soluzioni, sulla devianza sociale, descrivono i colpevoli come dei mostri, dei batteri nel sistema immunitario della società. Lui alza di nuovo il braccio e prende il crocifisso che porta al collo tra le dita: persino attraverso le garze, ne sente il calore . Come possono parlare di mostri? Sono forse mostri quelli che mi hanno ridotto così?

Affrontando il dolore delle costole fratturate, si gira su un fianco per vedere fuori dalla finestra: non vede la strada, ma l’insegna di un piccolo bar si insinua alla vista, dal balconcino. Se li sta ancora immaginando, seduti, magari proprio in quel bar, senza fretta, ad accarezzarsi placidamente le nocche tumefatte e a ripensare a quanto si sono sentiti bene, a quanto si sono sentiti forti e valorizzati nel massacrare un povero pazzo bastardo che la sera prima si era permesso di provocarli.

Offrendo il suo corpo allo scempio, innescando la giusta scintilla, ha dato a quattro povere anime la possibilità di purgarsi della violenza che gli montava dentro da anni, li ha liberati dal male del vivere moderno, pensa versando una lacrima commossa che scivolando brucia il suo sale sulle abrasioni dello zigomo destro. Quel male se l’è preso lui, perché non dovessero subirlo altri, come sua moglie, stuprata, rapinata e uccisa da un uomo che sarebbe per sempre rimasto senza volto, solo un’ombra per sempre appostata a ogni angolo buio. Ma quell’ombra faceva meno paura quando lui soffriva, quando andava a cercarla per oscure valli d’asfalto, a cercare il martirio che avrebbe dovuto toccare a lui, a espiare l’assenza di una notte, passata nell’adultero letto di un’altra donna.

Ah, se solo in città ci fossero più persone come lui, quei veri cristiani che non chiedono perdono ma porgono la loro schiena al martello del castigo, allora sì che il mondo sarebbe davvero un posto migliore, ma la gente è impaurita dal dolore oppure non pensa che l’odio dei suoi fratelli li riguardi. Quanta ipocrisia, pensa, l’ipocrisia che fa marcire il mondo e affoga i vivi nel peccato, facendoli chiamare cielo il fango in cui gorgogliano. Promise a se stesso che non sarebbe più stato un’ipocrita .

I segni sul corpo, quelli sono un talismano di verità, si ripete carezzandosi l’ematoma che ricopre  tutto il suo costato, mentre un’infermiera spazientita entra sbuffando.

-E’ la quarta volta in un mese!-

Lui incontra i suoi occhi, occhi arrabbiati e frustrati. La capisce.

-Non riesci proprio a non metterti nei casini?

Anche questa povera infermiera è malata, molto più di quanto non lo sia lui.

-Rompermi qualche osso la farebbe stare meglio?, le chiede porgendole la mano sana.

La donna rimane a bocca aperta. La salivazione le aumenta.

Quegli uomini non erano mostri. Questa donna non è un mostro.

Le sue dita, in poche settimane, sarebbero tornate come prima.

Illustrazione di Tancredi Vasile

Guido Zanetti

Guido nasce a Genova nel 1992. Cresce a Pavia, dove studia filosofia per tre anni e tre quarti. Corre a Torino, dove studia sceneggiatura alla Scuola Holden.

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