Dove muoiono le lanterne

A Torino il cielo era grigio scuro e le nuvole, non sapendo se portare pioggia o neve, nel dubbio lasciarono cadere tutte e due. Che non fosse la serata adatta per accendere delle lanterne l’avevamo capito noi che nemmeno avevamo il cervello.
Era mezzanotte e faceva freddo. Lo potevamo quasi percepire, anche se eravamo chiuse dentro un sacchetto di plastica. Ci chiamano lanterne cinesi, ma noi siamo nate a Bangkok.
Abbiamo un cuore che brucia nel nostro corpo, sottile, di carta. Un po’ come gli uomini, in fondo.
Alcune di noi portano un biglietto, dove vengono racchiuse speranze troppo lontane dalla realizzazione.
Siamo in una confezione da otto lanterne, tutte colorate, tutte diverse. Tranne noi due. Noi abbiamo la pelle di carta bianca. È raro, sapete, avere due lanterne uguali. Ancor più raro era il fatto che la nostra carta, il nostro corpo, combaciasse in un punto, come se fossimo state legate da un destino indissolubile: eravamo nate per bruciare insieme. Questo ci dava un po’ di coraggio. Come tutte le lanterne, conoscevamo il nostro destino. Ma un conto è saperlo, un conto è viverlo questo destino, dopotutto.
Gli uomini erano parecchi, almeno una decina. Erano tutti coperti da giacche impermeabili e cappucci con il pelo. Camminavano in gruppetti sparsi, alcuni si tenevano per mano, altri controllavano il passo in funzione di chi avessero accanto. Dalla Mole passarono a piazza Vittorio, da piazza Vittorio raggiunsero il Valentino. 
Sentivamo le loro parole. Ci veniva quasi da ridere, a sentirle.
Occhialuto1 si nascondeva agli occhi di Occhialuto2, ubriaco, CappottoVerde lanciava sguardi di odio a CappelloDaPescatore, abbracciato a OmbrellinoRosa.

RossettoRosso nascondeva sotto il trucco di donna di ghiaccio la sofferenza per un amore perduto. E poi c’era VoceInsopportabile, che godeva delle attenzioni di TizioMagro. Il fidanzato era lontano, dopotutto.
«Fermiamoci qui!» RossettoRosso parlò.
Siamo state le prime a essere tirate fuori dalla confezione e si sono accorti subito che eravamo diverse. Io toccavo il suo corpo e lei toccava il mio.
Ma gli uomini sono dei barbari. Incuranti del nostro essere speciali, due di loro, BambinoCapriccioso e BarbaIncolta, hanno provato a staccarci.
Hanno tirato forte, fino a che il nostro punto in comune si è trasformato in uno squarcio profondo.
BambinoCapriccioso si lamentava.
«La mia lanterna è rotta!»
BambinoCapriccioso aveva ventitré anni. Ci ributtò nella confezione di plastica.
Si avvicinò a lui FacciaDaMamma. Gli porse la sua lanterna.
«Tieni la mia»
«Ma è rosa»
«Però non è rotta».
FacciaDaMamma ne aveva ventisei.
«Passamela, va».
BambinoCapriccioso prese l’accendino dalla tasca e cominciò a passarlo sulla cera. La carta si gonfiava. FacciaDaMamma reggeva la lanterna, che cercava di resistere alle gocce di pioggia.
«Lasciala, ora», diceva Bambino di ventitré anni.
E Mamma di ventisei la lasciò. Librò nell’aria, bellissima. Ma una folata di vento ne virò la traiettoria, andò a schiantarsi contro un albero e si spense tra i suoi rami.
«Non dovevi mollarla»
«Ma me l’hai detto tu»
«Cazzo, Maria, non ne fai una giusta».
Mamma ventiseienne si allontanò da Bambino ventitreenne. Lui le prese una mano e la baciò.
«Scusa, non era colpa tua»
«Non importa».
Si ricordarono di noi. Valutarono i nostri squarci. Presero me, cominciarono a riscaldare la cera.
Ma io vedevo lei, piccola stella rara, gettata a terra come fosse spazzatura, col cuore spento accanto al corpo senza vita e senza luce.
Mi accesero. Cominciai a respirare.
Bambino legò un biglietto di cartoncino.
«Voglio che lei ritorni da me».
Ad un certo punto mi lasciarono andare. Lo squarcio era una finestra per la luce della luna.
Superai la lanterna rosa impigliata nell’albero e proseguii il mio cammino.
Non saprei dire per quanto tempo volai. Mi si vedeva bene. Nonostante lo squarcio, nonostante tutto, io volavo per il cielo sopra Torino. Sovrastai il parco del Valentino, la Mole, il Po. Scoprii una resistenza alla pioggia e al vento che non credevo di avere. La mia carta s’era fatta più spessa. E volavo.
Com’era bello, volare! Che sensazione incredibile. E pensare che avrei potuto non provare mai, non sentirmi mai.
Mi accorsi improvvisamente che non avevo accanto la mia compagna.
Avrei voluto ricordarmi di lei, ma il mio cuore bruciava troppo velocemente. Volevo rallentare, ma non sapevo come. Volevo vedere tutto, ma mi sentivo stanca. Era molto più naturale lasciarsi cullare dal vento.
Mi sentii senza forza, senza sostanza. Il cuore smise di bruciare e cominciai a planare con una lentezza accomodante.
La pioggia si fece più insistente.

«Mamma! Vieni a vedere!»
«Rallenta, Giovanni, o inciamperai»
«Guarda! Guarda qui!»
Splendeva il sole al Valentino. Una distesa di resti di lanterne riempiva diverse aree del parco. In lontananza, alcuni netturbini raccoglievano a grandi manciate i cadaveri di alluminio.
«Non toccare, o ti farai male!»
«Perché sono qui?»
«Ieri era san Valentino. Tutti gli innamorati hanno acceso una lanterna»
«Mamma, dove nascono le lanterne?»
«In cielo»
«Ed è qui che muoiono?»
«No. Muoiono vicino a dove dovevano andare».
Giovanni raccolse un lungo pezzo di legno e cominciò a perlustrare la zona.
Qualcosa di bianco, lontano dal cimitero delle lanterne morte catturò la sua attenzione.
Una lanterna quasi integra, con la cera ancora nella confezione di plastica, giaceva sotto lo scheletro di un’altra.
Su uno dei fili d’acciaio pendeva un biglietto di cartoncino, con le lettere un po’ sbiadite dall’acqua.

Illustrazione di Marco Pellino

Martina Marasco

Martina nasce a Varese il giorno dell'amore, circondata dai sette laghi e dalle parole di Stendhal. Non ha mai imparato a gestire la rabbia, le cose e le persone, così ha cominciato a scrivere. Ama i cani, al punto che di solito ci si fidanza e ride al pensiero di aver scritto la sua biografia in terza persona.

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