La guardia reale

Non aveva mai sentito così caldo.

Settembre era quasi a metà, ma all’estate sembrava non importasse e le giornate, a Londra, trascorrevano in una surreale mancanza di pioggia: turisti in bikini si stendevano su spiagge improvvisate lungo le rive del Tamigi e anche gli inglesi più tradizionalisti, non senza una punta di nostalgia, si arrendevano  a lasciare a casa l’ombrello.

Jason avvertì il principio di un prurito alla testa, un po’ sopra la tempia sinistra, e le dita della mano si contrassero, ribellandosi al braccio dritto e fermo lungo il fianco: spostò gli occhi in entrambe le direzioni, ben attento a lasciare la testa immobile; il prurito intanto si allargava e il pizzicore si faceva più forte sotto il cappello ingombrante e peloso.

La piazza davanti a lui era deserta e Jason, con una smorfia ringhiosa, stava per cedere, fare quel gesto rapido che in pochi secondi si era incitato centinaia di volte a fare, ma quando il braccio aveva già cominciato a piegarsi si accorse della telecamera: attaccata al suo gabbiotto davanti a Buckingham Palace, puntava dritta su di lui.

Sospirò forte, doveva stare immobile.

Sentiva mille formiche zampettare tra i suoi capelli.

Durante le ore di guardia undici turisti si erano avvicinati per fare foto in pose ridicole, sette si erano impegnati a fargli le boccacce a due centimetri dalla faccia e un bambino lo aveva osservato  pieno di perplessità, gli aveva tirato la giacca un paio di volte e tastato le gambe con la punta delle dita. Infine gli aveva chiesto:

“Sei vero?”

Jason aveva fatto finta che non esistessero.

Suo padre glielo aveva ripetuto fin dalla scuola elementare: quando hai un compito non puoi permetterti nessuna distrazione.

Tese tutti i muscoli che aveva come se potesse far saltare via il prurito. Stava facendo buio, ma il calore teneva la città imprigionata e non accennava a mollare.

Una goccia di sudore gli scese dalla fronte e camminò sul sottogola del colbacco, scivolandogli poi fino alla bocca; Jason la assaporò stringendo le labbra, ricordandosi improvvisamente di avere sete.

“Non si combina niente di memorabile senza una divisa” si ripeté, come se le parole di suo padre potessero allontanare ogni fastidio. Il prurito non si placava, il tessuto spesso della divisa non faceva altro che espanderlo ad ogni angolo del suo corpo.

Il colletto della giacca stringeva, sentiva il solco rosso scavarsi nella pelle. Il metallo del bottone gli premeva appena sotto il pomo d’Adamo e sembrava scottasse: non vedeva l’ora che passasse la notte più di tutto per poterlo finalmente slacciare, con l’immaginazione assaporava il gesto che avrebbe fatto, il tintinnio leggero del cerchiolino di ferro che usciva dall’asola, la soddisfazione con cui lo avrebbe lasciato penzolare lontano dalla sua gola.

Lo avevano dovuto aiutare per allacciarlo, era talmente stretto che da solo non ci sarebbe riuscito, e quando aveva proposto al suo capo di lasciarlo aperto, con un tono di scherno si era sentito rispondere che il primo giorno di lavoro era un po’ troppo presto per tentare di fare la rivoluzione.

“E in un mondo caotico come il nostro il vero rivoluzionario è chi sa mantenere l’ordine” avrebbe terminato la frase suo padre, e Jason aveva sentito lo sforzo del bottone di restare chiuso, stringendogli il collo come il nodo di un cappio.

Ormai era notte inoltrata. Jason era dritto sul suo posto con i muscoli doloranti, il fucile che pesava  sulla spalla e le ginocchia che a tratti sembravano perdere del tutto le loro forze, la testa che  pendeva da un lato sbilanciata dal peso del colbacco.

Sapeva di guardie che avevano imparato ad addormentarsi in piedi, durante il servizio, e per un istante credette di esserci riuscito quando un rumore proveniente dal giardino lo fece sobbalzare. Probabilmente lo aveva sognato.

Poi lo sentì di nuovo: qualcosa si muoveva tra l’erba, lentamente, non troppo lontano da lui; Jason pensò che potesse trattarsi di un animale, una volpe o uno scoiattolo, con le mani tremanti e gli occhi stretti nel buio afferrò il fucile senza sapere bene dove puntarlo. Per un attimo ogni rumore cessò, e allora sentì le spalle rilassarsi, avvertì il cuore rimbombare forte ma più lentamente, si riappoggiò il fucile sulla spalla e fece per rimettersi nella posizione di guardia.

Ma ancora: l’erba alle sue spalle frusciò sotto i piedi di un corpo pesante, gli arrivò alle orecchie una voce, sussurrata, borbottava parole che non capiva.

Aveva ben chiaro da che parte venisse.

Si girò di colpo col fucile già pronto, pensò al suo compito, alla necessità di fare qualcosa di memorabile, era il suo momento, la sua occasione, il fiatone gli spezzava il respiro, ma le mani adesso non tremavano più.

Era lì per quello.

Sparò. Una figura piccola e coperta da una vestaglia scura si immobilizzò con un lamento strozzato e crollò a terra lentamente, come una torre a cui sono state tolte le fondamenta. Uomini con un completo nero e un microfono appeso all’orecchio cominciarono a correre per il giardino urlando tra loro.

La bocca di Jason si inclinò in un sorriso: la leggenda delle passeggiate notturne della regina era vera, allora; l’informatore aveva ragione.

Portò una mano al collo e fece quel gesto che aveva tanto atteso: slacciò il bottone, il cerchio di metallo tintinnò uscendo dall’asola, lo lasciò penzolare nel vuoto, senza più fatica, finalmente.

Libero.

Illustrazione: Raffaele Cataldo

Sissi Decorato

Sissi nasce, cresce e si laurea a Milano. Poi cambia idea e si trasferisce a Torino. Ama fare piani per il suo futuro e farli saltare; parlare di Dickens e leggere Sophie Kinsella di nascosto; i vestiti eleganti, ma solo se abbinati a scarpe eccentriche.

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