Vieni.
Avvicinati.
Guardami come si fa con le cose vive.
Il tempo si sta esaurendo, ma puoi ancora sentirli bisbigliare attraverso gli interstizi delle pareti.
Risate lievi come sbuffi di nuvole o singhiozzi delicati che graffiano gli ultimi raggi di sole.
A volte, attraverso le fenditure dei muri, riesci a catturare il guizzo di un paio d’occhi azzurri, la linea spigolosa di una mascella o una guancia infossata, e ti sembra quasi che ti alitino sulla nuca.
Solo tu puoi vederli, io posso solo sentire le loro voci infantili.
Però, ricordo.
Un tempo questa villa non era ricoperta da una cascata d’edera polverosa.
C’erano regole ferree, scandite dall’enorme orologio a pendolo del salotto, quello che avevamo costruito insieme per il mio sesto compleanno.
La colazione alle sei, il pranzo a mezzogiorno e la cena alle sette.
C’erano vestiti puliti e castigati, in toni neutri per non alterare il delicato equilibrio delle nostre esistenze.
La fontana, al centro del giardino, non era ricoperta di muschio; sulle pareti svettavano gli arazzi delle quindici generazioni che hanno preceduto la tua, e in ogni stanza luminosa si propagava il suono dei carillon, come il vento fra le imposte socchiuse nelle giornate autunnali.
In paese ti chiamavano l’Inventore, e tutti erano affascinati dalla tua capacità di far vivere ogni oggetto, di riparare gli ingranaggi e di creare misteriosi marchingegni dalle forme più bizzarre.
La tua follia era una follia buona. Un’inclinazione alla genialità.
Dicevi che le cose erano meglio delle persone, perché non erano guidate da alcun impulso.
Non tolleravi l’istinto, le pulsioni e il disordine, forse è per questo che ti eri confinato quassù, in cima alla collina, nella vecchia dimora della tua famiglia, solo con mia madre e le tue creature inanimate.
Era una donna mite, mia madre, diafana come le bambole di porcellana che collezionava da bambina, delicata e struggente come gli ultimi scampoli d’estate.
Noi due eravamo tutto ciò di cui aveva bisogno per essere felice, noi e questa vecchia casa piena di spifferi.
Lei non riusciva a vedere oltre l’idea che si era fatta di te, e per tutta la mia infanzia non la turbò mai il modo in cui tentavi di contenere la mia iperattività.
A dodici anni, quando il mio corpo iniziò a cambiare, decidesti che avrei studiato da privatista, e mi proibisti di chiudermi a chiave nella mia stanza.
Infine, quando la gravidanza di mamma fu dichiarata a rischio mi trasformai, mio malgrado, in un’adulta.
Il mio compito era semplice: tenevo in ordine la casa e mi premuravo che a lei non mancasse nulla, e che non fosse costretta a fare alcuno sforzo.
In quelle lunghe giornate monotone, avevo sempre l’orecchio teso ai rumori che provenivano dalla cima della torre, la tua stanza degli incantesimi, così la chiamavi.
Trenini a vapore, orologi a pendolo, ballerine di latta, carillon e monocoli. Nessuna delle tue creature mi disturbava, storcevo solo un po’ il naso quando decidevi che era tempo di imbalsamare un altro animale trovato morto nei boschi accanto alla villa.
Avevi una vera e propria ossessione per gli sguardi vitrei, non riuscivi a tollerarli, così scendevi in paese e ordinavi interi set di occhi di plastica, di vetro e, quando proprio non trovavi niente, decine e decine di bottoni.
A lavoro ultimato, depositavi la tua scultura in una delle stanze al secondo piano, una in cui non entravo mai, tranne quando la polvere non poteva più essere ignorata.
A quel punto, armata di straccio e detergente, cantavo forte e lavoravo svelta, stando attenta a non incrociare lo sguardo innaturale di quelle bestie morte.
Gli unici attimi di gioia li trascorrevo al capezzale della mamma, quando spazzolavo per lei i capelli delle sue bambole di porcellana, cercando di non guardare quegli occhi che si aprivano e chiudevano frenetici al minimo tocco, o davo l’ennesimo giro ad un carillon. A quel punto, mamma sorrideva e chiudeva gli occhi, ripetendo che erano stati i carillon che le costruivi durante il corteggiamento a farla innamorare di te.
Una notte, a due settimane dal parto, mi trovasti con la porta chiusa a chiave.
Sapevi bene cosa stavo facendo: non potevi tollerare il pensiero che esplorassi il mio corpo, la sola idea ti ripugnava.
Quella fu la prima volta in cui scavasti un passaggio nel massiccio muro che delimitava il perimetro della mia stanza. Applicasti dei piccoli fori, per potermi spiare, e io mi rigiravo ogni notte nel letto sentendo il fruscio dei tuoi vestiti nelle pareti.
Mamma era troppo intontita dalla morfina per rendersi conto di quel che stava accadendo, del tuo continuo scavare e di come la polvere si era depositata su ogni superficie della casa.
Pulivo in modo ossessivo, ma non serviva a niente.
L’idea di ricavare dei tunnel nelle pareti ti piacque talmente tanto che decidesti di trasformare l’intera proprietà in un labirinto di cunicoli stretti una cinquantina di centimetri.
Dicevi che i muri portanti avrebbero retto, che le pareti erano spesse abbastanza per creare i tuoi corridoi dell’orrore, pieni di spioncini da cui potevi scrutare ogni mio respiro.
Mamma se ne andò in un tiepido pomeriggio di marzo, senza fare alcun rumore, cullata dal pianto dei gemelli.
Tu a malapena li guardasti prima di depositarli fra le mie braccia.
Si agitavano in modo eccessivo, le guance troppo rosse, i movimenti convulsi, i pianti disperati, tutto di loro ti risultava intollerabile.
Il mattino dopo la salma era scomparsa. Non seppi mai che fine avessi fatto fare ai suoi resti, ma non tornai mai più nella stanza al secondo piano, quella piena di animali morti, terrorizzata all’idea di trovarci anche lei, monumento perpetuo di un amore cristallizzato nel silenzio.
Credo che quello fu il momento esatto in cui smisi di esistere.
Avvertivo una rigidezza nei muscoli, mi muovevo a scatti, faticavo a deglutire, a sbattere le palpebre o a muovere la lingua per parlare.
Due settimane dopo non riuscivo più ad alzarmi dal letto, e mi somministravi i pasti in endovena.
Mi smarrii nel tempo: un anno o forse cinque, non ero più in grado di stabilirlo.
Sui candelabri si annidarono le ragnatele, i granelli di polvere si depositarono sulla lunga tavolata, sui mobili e i divani, fino a ricoprire ogni cosa.
La decadenza si era insinuata in ogni anfratto della villa, facendoci sprofondare tutti in un gelido torpore.
Proibisti ai gemelli di muoversi liberamente per casa. Strisciavano tutto il tempo in quel complicato gioco di tunnel dentro le pareti, e sentivo le loro voci rincorrersi, chiamarsi, e poi smarrirsi nei pesanti silenzi che venivano dopo.
All’imbrunire riemergevano dal cemento, sporchi e inselvatichiti dalla polvere e dai tagli che si erano procurati nelle intercapedini.
Dopo arrivavi anche tu e cercavo di spalancare la bocca, di protestare per quel che sarebbe accaduto di lì a poco, ma il mio restava sempre un grido muto.
Per far sì che nulla sfuggisse al macabro rituale, avevi appeso un enorme specchio sulla parete davanti al letto, affinché potessi guardarmi.
I gemelli mi acconciavano i capelli in tanti boccoli ordinati e dipingevano le mie labbra di rosso sangue, ma non sentivo la pressione del loro tocco, mi turbava solo il dover guardare dentro i loro occhi, sentendo i miei immobili.
Poi toccava a te: mi spogliavi e iniziavi a passarmi una spugnetta umida sul corpo.
Mi vergognavo a mostrarmi così, ma quel barlume d’eccitazione sui volti dei gemelli andava via via scemando, fino a congelarsi in espressioni dal piglio scientifico, e rivederti in loro, solo per quel minuscolo dettaglio, accresceva il mio orrore.
Non sentivo la spugna sul corpo, avevo perso qualsiasi sensibilità a livello tattile, ma ti ostinavi a provarci ogni sera, turbato all’idea che provassi ancora qualche impulso.
Passavi la spugna fra le mie gambe, la frizionavi sui seni, e quando questo non produceva alcun effetto, mi trasformavi in una di quelle bambole di porcellana che piacevano tanto alla mamma.
Avevi stretto dei nastri di seta attorno al mio collo, al busto, alle caviglie, ai polsi, ne avevi passati di minuscoli fra le mie dita; convergevano tutti in una ruota di legno appesa alle spalle del letto, collegata a decine di corde sottili come spago che pizzicavi.
Muovendo le dita, facevi muovere anche me.
A volte mi sollevavi in aria e il mio corpo rigido sembrava tornare in vita, trasformato nella tua ballerina. Il cilindro alle spalle della ruota iniziava a girare e una musica triste si diffondeva per tutta la stanza, rendendo vitrei i tuoi occhi.
In quei giorni sapevo che la mia agonia sarebbe stata limitata dalla sofferenza provocata da quelle note, dal ricordo dell’unico essere umano che avevi amato davvero.
Ma erano più le volte in cui mi costringevi a muovere un braccio o una gamba, piccoli scatti del corpo in previsione del gran finale.
Eri molto attento a far muovere le dita della mia mano destra. Prima, posavi la mia mano fra le gambe, poi lasciavi che l’indice e il medio si facessero spazio fra le labbra; a quel punto, senza mostrare alcuna traccia d’emozione sul viso, applicavi la giusta pressione affinché affondassero dentro di me, ancora e ancora, e l’urlo nella mia testa si faceva assordante.
Al termine di quella operazione annotavi qualcosa sul tuo taccuino, accanto agli schizzi delle creazioni che avresti costruito in seguito, e intimavi ai gemelli di tornare nel muro.
Avevi creato due nicchie più grandi nella parete che separava la mia stanza dal corridoio, ed era lì che li mandavi a dormire.
Legavi loro i busti, mani, piedi e collo, in modo che restassero dritti nell’intercapedine, e spegnevi la luce.
Ogni notte sentivo i loro respiri, intervallati dai rumori provenienti dalla torre, e intuivo che non li avresti sopportati per molto: le loro chiacchiere, i loro giochi, la loro iperattività, tutti quegli impulsi che non eri in grado di domare, finendo con il richiudere ogni crepa per lasciarli sepolti nel tuo labirinto di gallerie.
Sapevo anche che, presto o tardi, quando il mio cuore si sarebbe arreso all’immobilità, avresti imbalsamato anche me.
Sarei finita nella stanza al secondo piano, lì dove ogni istinto si solidificava nel silenzio.
Un racconto di Giovanna Giordano
Foto di: Mario Aielli
Giovanna Giordano
Giovanna nasce in padania da genitori terronici, dal nord ha imparato ad alcolizzarsi di vino, dal sud a mangiare come se non ci fosse un domani. Da piccola ha frequentato tutte le scuole cattoliche che Verona offriva, infatti poi è diventata atea. Da grande vuol far parte del fronte liberazione nani da giardino.