I capelli più belli del sole

Si chiamava Chiara Petrelli e aveva i capelli più belli del sole. Frequentavamo catechismo insieme ma non parlavamo mai. Chiara era una di quelle bambine che portavano sempre la merenda, mentre io ero uno di quelli che sudavano in piazzetta e si sbucciavano le ginocchia. La suora chiedeva sempre a lei di leggere, perché aveva la voce pulita e sapeva rispettare tutte le pause, e io volevo dire: grazie suora, perché altrimenti non l’avrei mai sentita parlare.
Chiara sembrava di porcellana, e forse anche suo padre lo sapeva, perché non la lasciava mai giocare con noi altri in piazza dopo la lezione.
Don Aldo, che aveva la psoriasi che gli mangiava tutta la faccia, entrava ogni volta e diceva: «Chiara preparati, c’è tuo padre che ti aspetta».
Suo padre era diventato il mio peggior nemico, perché avevo a disposizione solo sessanta minuti per contemplare i capelli di Chiara, e lui me ne succhiava via dieci, arrivando a prenderla così presto.
Poi un giorno non era venuto. Chiara era rimasta seduta in chiesa ad aspettarlo davanti alla statua di Santa Lucia, quella enorme con gli occhi sanguinanti in mano.
«Vuoi venire a giocare a mosca cieca?», le avevo chiesto e lei aveva scosso la testa per dirmi di no, però la bocca era diventata un archetto che le scavava la guancia.
«Vuoi che aspetto qui dentro con te?»
«Sto pregando», aveva risposto lei e si era inginocchiata con le mani giunte, il viso puntinato dalle ombre rosse delle candele. Io avevo fatto come lei, ma senza tenere gli occhi chiusi: la guardavo, proprio come si guardano i miracoli. Lei s’era girata d’improvviso e con il tono di chi supplica mi aveva confessato: «devo tornare a casa».

Avevo ereditato una Graziella sgangherata da mia nonna, ma si capiva che era da femmina perché la canna non era dritta, scendeva giù come una virgola, e io non avevo potuto portarla davanti a me e sentire il profumo dei suoi capelli. L’avevo fatta sedere sul portapacchi; era così piccola e leggera che non ne avvertivo nemmeno il peso, però la sentivo perché, quando per sbaglio incontravamo una buca, la sua voce usciva fuori come un singhiozzo e le sue mani si aggrappavano ai miei fianchi.
La lasciai davanti casa -sapevo bene quale fosse- e lei mi abbracciò per salutarmi. Nessuna femmina, a parte la mamma, mi aveva abbracciato prima.
«Grazie», disse.
E poi disse anche: «ora vai».
Io però non me ne andai, rimasi nascosto a fissarla mentre si allontanava da me, speravo che si voltasse per un ultimo sguardo.
Ma non si voltò, perché quando il padre aprì la porta le tirò uno schiaffo in piena faccia, tanto che Chiara cadde: la cartellina del catechismo volò in aria e tutti i libri e i pastelli finirono a terra. I suoi capelli si spensero, come quelle stelle, le supernove che esplodono in mezzo al cielo e creano buchi dove viene risucchiata tutta la felicità. Aveva gli occhi rossi e viola, il papà di Chiara, e io non l’avevo mai visto così. La sollevò per un braccio e la trascinò dentro casa. Urlava qualcosa di bruttissimo ma io non sentivo, perché avevo le orecchie ovattate e gli occhi pieni di lacrime e mi sembrava di essere sott’acqua.
Non lo dissi mai a nessuno e mai più parlai con Chiara. Smisi di andare al catechismo e quell’anno non presi la cresima. Smisi anche di correre in piazzetta e di avere le ginocchia sbucciate, perché ero diventato grande.
Quel giorno tornai davanti alla statua di Santa Lucia, piegai la testa e questa volta chiusi gli occhi. Pregai di non diventare mai così.
Io, se avessi avuto una figlia con i capelli più belli del sole, non avrei mai voluto tirarle uno schiaffo.

Illustrazione di Ferruccio Peruzzi

Jolanda Di Virgilio

La sua vita è un pendolo che oscilla tra la nostalgia di casa e il terrore di tornarci, la scelta di essere vegetariana e la passione per il cibo spazzatura, l'amore per Kieslowskij e l'esaltazione per la nuova stagione di TheLady. Nell'attesa che le venga diagnosticato il disturbo bipolare, legge e guarda serie tv.

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