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Acciaio precario

Si svegliavano sempre alle sei del mattino, il padre si stupiva ogni volta di trovare il figlio già in piedi, vestito di tutto punto, pronto per uscire, mentre lui era ancora in pigiama.

Fil era incaricato, mentre il papà era in cucina a bere il caffè, di prendere l’attrezzatura e caricarla sulla macchina, stando bene attento a non svegliare la mamma. Il bambino scendeva le scale della cantina e prendeva due canne da pesca, la cassetta con lenze, mulinelli e quant’altro, e le mostrava al padre. Al suo cenno d’assenso, Fil sistemava tutto sulla vecchia Panda per poi rientrare in casa.

«Non manca niente, Fil?»

«Niente.»

«Perfetto, ora fai la guardia alla macchina. Mi lavo i denti, mi vesto e arrivo.»

«Va bene.»

«Hai salutato la mamma?»

«No.»

«Vai allora».

Fil entrò nella stanza dei genitori e si accostò al letto. La mamma era avvolta nelle coperte e solo il volto ne fuoriusciva. Nella camera, a far compagnia al delicato russare materno, c’era il sottile e imperterrito bip delle macchine. Facendo attenzione a non urtare niente, Fil si avvicinò alla madre e, dopo averle toccato il naso, le diede un bacio sulla guancia.

Il faro di Nettuno, tozzo e macchiato dalla ruggine, era poggiato sull’ultima lingua di terra prima del mare aperto. Fil e Marco, il papà, erano seduti ormai da un’oretta sempre sullo stesso scoglio, un parallelepipedo di cemento dagli angoli arrotondati e dalla seduta ricoperta di piccoli ghirigori aguzzi.

Il sole era alto e scaldava i loro corpi mentre il vento freddo di ponente gli mozzava il fiato e scartavetrava la loro pelle.

Il secchio ai loro piedi era ancora vuoto.

«Oggi non è giornata», disse il padre, ritirando per l’ennesima volta la canna da pesca col solo amo a lambire l’aria.

Fil non rispose. Stava fissando intensamente il suo galleggiante arancione evidenziatore, che si stagliava nel mare come fosse una boa, scalando piccole onde di risacca.

Erano cinque minuti che non spostava lo sguardo; la mamma gli aveva sempre detto “se vuoi una cosa non staccargli mai gli occhi di dosso”, così lui rimaneva lì, pregando il dio dei pesci, quello del mare e qualunque altro per riuscire a prenderne almeno uno.

La preghiera sembrò funzionare, infatti il galleggiante improvvisamente sparì in acqua e Fil urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.

«L’ho preso, l’ho preso!»

Marco gli si avvicinò subito.

«Non lasciartelo sfuggire, tiralo su».

Fil serrò i muscoli delle braccia e con il polso destro diede un rapido scatto verso l’alto. Alle fine della lenza, che penzolava incrinando il sole, c’era solo il piccolo amo di acciaio.

«Niente…» disse Fil sconsolato, portando il bolentino a sé.

«Oggi non è giornata, te l’ho detto».

Fil prese il galleggiante tra le mani e notò una crepa che lo attraversava per tutta la lunghezza. Per un istinto di sabotaggio e autodistruzione, con l’unghia dell’indice scavò all’interno della fenditura, fino a spaccare completamente il piccolo pezzo di plastica. Si aspettava di trovare qualcosa: un pesce, un tesoro, una risposta. Il bambino spalancò la bocca. Aveva assaporato la possibilità di distruzione senza però contemplarne le conseguenze.

«Papà, si è rotto il galleggiante», gli disse, indicandogli i due pezzi di plastica arancioni sullo scoglio grigio.

Il padre si avvicinò e guardò i resti del galleggiante dai bordi frastagliati.

«Forse con la colla…» mormorò speranzoso Fil.

«Lascia perdere la colla, ora ti faccio vedere io»

Marco prese dallo zaino una bottiglia di vino e la aprì con un cavatappi.

Il padre si fece passare la canna dal figlio mentre stringeva nella mano sinistra il tappo di sughero. Con la destra girò più volte il sottile filo di nylon intorno al tappo, poi prese tre ami dalla cassetta per la pesca: uno lo ancorò all’estremità più alta del cilindro, un altro al centro e utilizzò l’ultimo per bloccare la lenza alla fine.

«Ecco fatto.»

«Funzionerà papà?»

«Fidati. Ora c’è un solo problema.»

«Quale?»

«Dovremmo finire tutto il vino».

I due scoppiarono a ridere e Marco bevve un sorso direttamente dalla bottiglia poi, guardando di sottecchi il figlio, la passò anche a lui.

«Posso?»

«Basta che non lo dici alla mamma».

Fil fece un breve sorso e subito una smorfia disgustata gli dipinse il volto. Marco scoppiò a ridere.

Il bambino si pulì la bocca con la manica della giacca; prese in mano il piccolo tappo di sughero e lo studiò attentamente. Lo annusò. Lo morse. E poi lo fece oscillare nell’aria. Chiuse un occhio e lo portò fino alla stessa altezza del sole, coprendolo. Quando lanciò la lenza, solo il padre si accorse che l’amo al centro del tappo si era già sganciato.

«Mamma guarirà?», chiese Fil mentre osservava, senza quasi sbattere gli occhi, il tappo di sughero in balia della risacca.

Marco fece due passi verso il figlio e gli toccò il naso con l’indice della mano destra.

«Il tappo non affonda.»

«È di sughero, e il sughero non affonda.»

«E come farò a sapere se i pesci abboccano?»

Marco non seppe rispondere e rimase col figlio a fissare intensamente il tappo.

«I pesci grandi Fil, i pesci grandi fanno affondare il tappo», disse improvvisamente.

«E quali sono i pesci grandi?»

«Quelli che ti strappano via».

Gli occhi del figlio si incrociarono con quelli del padre. Nessuno dei due si accorse che del tappo non c’era già più traccia.

Un racconto di Giulio Fenelli

Foto di Mario Aielli

Giulio Fenelli

Romano DOC. Da piccolo ha frequentato corsi di equitazione circense, golf, tennis, sci alpino e appenninico, e nel tempo libero scriveva poesie. Poi ha conosciuto il whiskey e le sigarette, e alle poesie non ci ha più pensato. Sogna in piccolo: gli basterebbe scrivere il nuovo Notturno Cileno e timonare il suo Pequod.

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