Verin_Ferrara_Tre

Tre

Alle undici di sera il locale era già pieno. Me ne stavo seduto con le gambe accavallate su un divanetto di velluto. Non avevo molta voglia di bere e mi annoiavo alla grande. Qualche minuto dopo entrò una tipa bionda, sulla cinquantina. Stava sottobraccio ad un uomo lampadato con pochi capelli brizzolati sulla testa, da quanto si somigliavano avrei giurato che fossero fratello e sorella, ma poi mi dissi che una cosa del genere non era possibile in un locale per scambisti e allora non ci pensai più. Restai lì a guardarli incuriosito e, ad essere onesti, un po’ li invidiai, perché sembravano davvero a loro agio, quasi abituati, come io non riuscivo mai ad essere. Si sedettero sugli sgabelli del bar. Ordinarono due Margarita, poi altri due e poi altri due ancora. Socializzarono con una coppia di froci ben educati ma chiaramente imbarazzati dalla situazione in cui si erano cacciati e in cui probabilmente solo uno dei due desiderava mettersi.

 

Alle tre io e la tipa bionda ci incrociammo all’uscita dei bagni. Aveva il rossetto sbavato e sistemava di continuo la frangetta. Mi bastò solo un attimo per rivederla con un diverso taglio di capelli e con qualche ruga in meno. Dio Cristo, pensai. E fu anche l’unica cosa che il mio cervello riuscii a produrre per un po’ di tempo. Mi dileguai dietro una porta a vetri sulla quale lampeggiava la parola love, con la sincera speranza di non rivederla mai più.

 

Un’ora dopo tornò da me e attaccò a blaterare. Mi raccontò di come la sua vita era diventata una vera merda. Il marito l’aveva mollata, le cose a scuola non andavano bene come ai vecchi tempi e tre mesi prima, come se non bastasse, si era cappottata col motorino per colpa di un suo studente che le aveva tagliato la strada. Sbottò in un sospiro di frustrazione, mi guardò come se non mi avesse mai visto prima e poi riprese. Quando finì di frignare, mi limitai a scrollare le spalle.

«Capito» dissi.

Ci fu un lungo silenzio.

«E quello che stasera è qui con te?» feci io, forse un po’ brusco, visto il momento.

«Chi?».

«Come chi?» feci un cenno nella direzione del tizio lampadato.

«Oh!», ci pensò su, «lui…»

«Lui».

«È mio fratello».

«Capito» dissi.

 

Quello che debolmente mi impegnavo a non fare accadere, accadde. Ad un certo punto della serata una mano delicata e morbida mi trascinò prima verso le scale e poi al secondo piano. Galleggiavo come un astronauta nello spazio. Entrai in una stanza buia e mi stesi su un grande letto circolare piazzato in mezzo a sei colonne bianche in stile romano. Sapevo per certo che in un altro periodo della mia vita sarei corso fuori, mi sarei catapultato giù per le scale e avrei imboccato la porta d’ingresso per andare il più lontano possibile. Ma lo avrei fatto in un altro periodo, appunto, non quella sera.

Feci in tempo a guardarmi intorno e ad accorgermi che la camera e il letto erano strapieni di gente. Dopodiché lei mi sbottonò i pantaloni e me lo prese in bocca.

Fu semplice. E umido.

Quando tutto finì, non pensai affatto a ricambiare il favore. Mi sentivo terribilmente stanco. Mi stesi su un lato e, come per proteggermi da un freddo improvviso, sollevai le gambe al petto. Lei mi chiese se qualcosa era andato storto. In effetti non sapevo cosa dire. Era tutto ok. O forse no. Non riuscivo a capirlo. E in ogni caso il tono della sua voce lasciava intendere tutt’altro, cioè: non dirmi che qualcosa è andato storto perché potrei non sopportarlo, anzi di sicuro non ho la forza per sopportare anche questo. Alla fine non mi venne in mente niente di sincero e perciò decisi di starmene zitto. Lei si stese accanto a me. Mi abbracciò e il calore del suo corpo si propagò veloce come una scarica elettrica. Restammo in quella posizione per un bel po’. Deve essere stato più o meno allora che scoppiai a piangere. Proprio così. Infantili, affannati singhiozzi senza lacrime vennero su, incontrollabili, dallo stomaco.

 

Nessuno mi chiese perché piangessi. Nessuno provò a calmarmi. Nessuno mi chiese conto di quella scena patetica. Niente di niente. Mi lasciarono fare. Ed io apprezzai la delicatezza di tutti quegli sconosciuti, anche se, in fondo, non mi sarebbe dispiaciuto se uno di loro si fosse impicciato e mi avesse chiesto: oh, allora che ti prende? E se proprio qualcuno si fosse impicciato, allora avrei risposto che non piangevo per chissà cosa, ma solo perché mi ero ricordato di quella volta, quindici anni prima, in cui la prof mi aveva dato un tre al compito di italiano. E avrei detto anche che non era il voto il problema, ci ero abituato, quanto quello che avevo cercato di dirle riguardo a me e alla mia vita e che lei non aveva capito.

Ma nessuno mi chiese niente.

E visto che dopo una decina di minuti non la smettevo, la prof provò a stringermi più forte. Ci appiccicammo l’uno all’altro. Io ero un liquido da assorbire su un tavolo di vetro e lei un foglio di carta assorbente. Mi sussurrava all’orecchio parole che non riuscivo a capire. Avrei dovuto chiederle di ripetere o di alzare la voce, ma mi accontentai di quel suo continuo bisbigliare. Era, in qualche modo, già tanto per me. Solo dopo molto iniziammo a dondolare, piano, e solo allora iniziai a calmarmi. I muscoli lentamente si rilassarono, asciugai con il dorso della mano il rivolo di saliva che era colato fuori dalla bocca e poi qualcuno, poco più in là, nel buio, venne, soffocando un urlo.

Un racconto di Francesco Ferrara

Illustrazione di Verin

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