A. B.

In tv c’era un concerto di Andrea Bocelli, una specie di consacrazione, o almeno così la mettevano.
Io avevo litigato con Marisa così le tirai fuori la storia di Aleandro Baldi, come diversivo.
Le raccontai che avevo incontrato Aleandro Baldi in autobus, andando dai miei, e che lui era al telefono con un prete, come capii, e discuteva sulla scaletta delle canzoni da fare durante la messa.
Le dissi che Aleandro Baldi era del mio paese e perciò non era così strano che fosse lì.
Aleandro Baldi era stato un famoso cantante negli anni ’90 e aveva vinto il festival di Sanremo prima come nuova proposta, quindi l’anno dopo nella selezione dei big. La sua canzone Non amarmi aveva venduto un sacco di copie e addirittura Jennifer Lopez l’aveva ricantata con il titolo No me ames:

Non amarmi perché vivo all’ombra
Non amarmi per cambiare il mondo

No me ames porque estoy perdido
porque cambie el mundo

La traduzione del pezzo era piuttosto fedele ma sostituiva il verso sull’ombra con estoy perdido, verso profondamente personale in cui Baldi stava cercando di dire che non voleva essere compatito per essere cieco. Ci era nato nell’ombra, come una talpa nasce sotto terra. Questo faceva sì che il suo aspetto fosse negletto ma in modo né ostentato né dissimulato, fosse curato ma come può essere curato un pupazzo.
Lui non sapeva cosa fosse vedere, né sapeva cosa fosse essere visto. Niente colori, niente forme. Non aveva mai visto sua madre o il cielo, non sapeva che aspetto avesse l’autobus su cui era seduto o le facce che lo guardavano incuriosite e in imbarazzo.
La cecità, pensai, è una strana forma di handicap. Un cieco sembra sempre che sappia qualcosa in più di te.
Col suo aspetto da roditore, invisibile a sé stesso e agli altri, senza una singola espressione del viso, stava in un mondo tintinnante, ruggente, sibilante, scricchiolante, sciabordante.
Mi colpì perché parlava a voce talmente alta che tutto l’autobus poteva sapere quando avrebbe cantato E sono solo un uomo o il grande classico Servo per amore.
Ma come era arrivato lì, da solo, in autobus, per andare a cantare in una chiesa sfigata canzoni di chiesa?
Nel ’95, mi pare, quando si ripresentò al festival sulla cresta dell’onda, Aleandro Baldi trovò un altro cantante pronto a fargli la festa, un giovane della provincia di Pisa, cieco come lui ma con una bellissima voce da tenore.
Marisa mi fissò incredula.
Indicai la tv con il mento.
In realtà, continuai, lui Andrea Bocelli lo conosceva già. Si erano conosciuti al collegio per ciechi di Reggio Emilia, erano praticamente coetanei ma non erano mai diventati amici amici.
I produttori, vedendo in Bocelli un’immagine più fresca e promettente di Baldi, una presenza più affascinante (niente occhiali mortiferi, una barba curata e – per esempio – delle espressioni facciali) dissero che due cantanti ciechi erano troppi.
Baldi allora partecipò a un altro festival, il festival “Viva Napoli”, con la canzone Lacreme napulitane mentre Bocelli ovviamente vinse l’edizione del festival di Sanremo e si ripresentò l’anno dopo arrivando solo quarto, con una canzone che però sarebbe stata suonata nelle piazze di tutto il mondo, in tutti i modi possibili, dagli zufoli peruviani ai violini tzigani: Con te partirò. Un classico, tipo Volare.
Bocelli diventò miliardario. Pubblicò Romanza, il disco italiano più venduto nel mondo. Lo chiamarono a cantare l’inno della Champions League, cantò l’Ave Verum Corpus di Mozart alla cerimonia funebre di Pavarotti.
Comprò spiagge, ville, castelli, girarono film sulla sua vita, gli dedicarono una stella sulla Hollywood walk of fame.
Baldi, dall’altro lato, subì l’ostracismo dei mercati ma continuò a suonare e a comporre. Mentre Bocelli sarebbe rimasto per sempre un interprete, lui imparò a suonare dodici strumenti e scoprì che il segreto della felicità è non avere dipendenze. Dal successo, dalla droga, dal sesso. Scoprì una luce interiore che illuminava i sogni che faceva dove le persone erano entità senza corpo ma con una loro melodia, come un jingle che le accompagnava e con cui comunicavano.
Bocelli in sogno ritornava invece a vedere, vedeva la sua infanzia, i colori accesi del mondo, la 127 di suo padre, il verde scintillante del campo da calcio un attimo prima della pallonata fatale. Coltivava una personalità dolente, un carattere rissoso e libertino mentre faceva una beneficenza strabordante, lasciandosi guidare in piena fiducia soltanto dai suoi cani.
Baldi scese dal bus senza neanche il bastone, attraversò la piazza ed entrò in chiesa, da un quadrato di buio ad un altro, come un treno notturno.
Marisa mi fissava con un raggio di sole radente le iridi.
Perché cazzo mi racconti questa storia?, disse.
Non lo so, risposi, ed era vero. Forse perché storpiavamo il titolo della sua canzone più buddhista alle elementari, forse per questo verso

ma quel piccolo dolore
che sia odio, o che sia amore
passerà

o forse perché a volte mi dà piacere pensare a Aleandro Baldi in una stanza buia che legge un libro con le dita. È un’immagine di Bolaño. Dice: qualcosa di simile alla felicità.
Marisa spense la tv e restammo a guardare quel rettangolo nero – che ronzava, o era lo spazio profondo? – per alcuni istanti.
Poi chiuse gli occhi, in uno dei suoi slanci drammatici, e allungò le mani per toccarmi la faccia.

Un racconto di Giovanni Ceccanti

Illustrazione di Maria Sciannimanico

2 thoughts on “A. B.

  1. Accidenti, che bel racconto! Nessuna parola superflua, ogni paragrafo serve, è scritto bene, è fresco e vivo, il tema interessante, il punto di vista curioso… complimenti!

Lascia un commento