Mazza- Pellino

Questo è come il lago

Quando Marzia è morta, Tommaso non era seduto nella poltrona reclinabile che le infermiere avevano sistemato accanto al letto. Dopo che era stata trasferita in psichiatria dal pronto soccorso, lui si era aggrappato a una routine molto scrupolosa, convinto che così sarebbero tornati presto alla vita di prima. Passava le giornate in ospedale e tornava a casa solo per lavarsi e indossare vestiti puliti: Marzia ci teneva che lui fosse sempre in ordine, così gli comprava camicie, giacche e pantaloni su misura. Di recente aveva anche spodestato la suocera nell’acquisto di mutande e calzini: «Se le lavasse lei senza farle ingrigire tutte, ’ste mutande bianche». Tommaso godeva di quella sottile competizione amorosa, e quando lei si era ritrovata stretta tra il vivere e il morire, aveva deciso di onorare il suo amore vestendosi sempre in maniera impeccabile.

Anche l’orologio era stato un regalo di Marzia, uno di quei modelli che oltre a scandire il tempo sanno resistere a ogni condizione avversa, indicare il nord, immergersi in acqua, cronometrare la vita.

Così, ogni giorno Tommaso puntava la sveglia dell’orologio alla stessa ora, tornava in ospedale con una camicia diversa e si piantava in piedi accanto alla sacca della flebo. Solo quando le gambe non gli reggevano più dalla stanchezza rosicchiava qualche centimetro di bordo del letto, muovendosi piano verso di lei per paura di romperla. Alle 17:30, quando terminava l’orario di visita, lui si nascondeva in bagno e ne usciva solo dopo che un’infermiera aveva tentato di farla cenare. Al quinto giorno, trovato di nuovo a dormire accucciato in terra, gli fecero trovare nella stanza una poltrona reclinabile. Dopo quell’episodio, aveva passato tutti i pomeriggi e tutte le notti al capezzale di Marzia, che nel frattempo rifiutava ostinata il cibo. «È troppo debole» aveva detto un’infermiera una mattina. «Quando è arrivata aveva già perso molto sangue. Se non riprende a mangiare saremo costretti a usare il sondino nasogastrico.»

«Non le piacerà» aveva risposto. «Non le piacerà per niente.»

«Vuole che sua moglie muoia?»

Tommaso era rimasto in silenzio. Come ogni giorno era tornato a casa, si era fatto una doccia, si era messo a letto e aveva puntato la sveglia dell’orologio così da stare di nuovo in ospedale per le 16.

Alla seconda settimana di ricovero, al suo arrivo in ospedale la trovò con il sondino. Entrò nella stanza, la chiamò e lei, molto lentamente, aprì gli occhi. Aveva i polsi ancora fasciati, la pelle grigia e tesa sugli zigomi, le occhiaie viola. Per la prima volta da quando era entrata in ospedale si chinò su di lei e la baciò piano sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli. Aveva i capelli sporchi, lo sentiva dall’odore. Inspirò forte lo stesso: «Amore mio, ti prego» sussurrò accarezzandole la testa. «Ti prego, ti prego, ti prego. Devi mangiare. Fallo per me.»

Marzia si portò una mano al viso, poi toccò il sondino. Ebbe paura che volesse strapparselo, invece disse solo: «Questo. Questo è come il lago.»

 

Sei anni prima Tommaso aveva portato Marzia a fare una gita al lago di Bracciano insieme alla propria famiglia. A un certo punto, senza che nessuno se ne accorgesse, la ragazza era sparita. Sua madre aveva suggerito che potesse essersi incamminata verso il lago, ma lei il lago lo odiava e in due anni che stavano insieme aveva sempre evitato con cura di unirsi a quelle tradizioni familiari. Allora, con il matrimonio annunciato da poco, non aveva potuto sottrarsi. Non subito, almeno.

Tommaso si congedò dal gruppo, prese la macchina e guidò verso la vecchia stazione, nella direzione opposta. La fermata non era più attiva da tempo, l’edera si arrampicava su ogni facciata, e sul retro, dove un tempo c’era la banchina, un albero aveva messo radici e cresceva per metà all’interno dell’edificio abbandonato. Parcheggiò l’auto e percorse a piedi gli ultimi cento metri.

Marzia era lì, dentro la vecchia stazione, seduta per terra con la schiena contro il tronco, la testa china a guardarsi le mani. Le si avvicinò piano, facendo quel tanto di rumore necessario a non spaventarla.

«Secondo te ci sono i fantasmi qui?» gli chiese.

Si accovacciò accanto a lei e le prese le mani perché smettesse di tormentarsele. «Possibile.» Si era scarnificata le pellicine intorno alle unghie dei pollici, il sangue aveva macchiato la maglietta.

 

Quando Marzia è morta erano passate cinque settimane dall’ingresso in pronto soccorso, quattro dal ricovero in psichiatria per aver smesso di mangiare, due da quando le avevano inserito il sondino, due da quando Tommaso aveva iniziato a salutarla baciandola sulla fronte.

Quella mattina Marzia si svegliò dal dormiveglia che occupava gran parte delle sue giornate, chiese alle infermiere quanto mancava all’orario di visita, e se le avrebbero potuto portare un budino al cioccolato: voleva mangiarlo con Tommaso al suo arrivo.

Quel pomeriggio Tommaso non si presentò alle 16. Le infermiere provarono a rintracciarlo, ma il cellulare era staccato e a casa non rispondeva. Si presentò alle 18:30, sudato e con la camicia del giorno prima, fece per parlare ma l’espressione dell’infermiera lo bloccò.

«Come l’ha fatto?»

«Il cucchiaio di plastica del budino.»

«Ha chiesto un budino?»

L’infermiera annuì. «Aspettava lei per mangiarlo.»

«La batteria dell’orologio» disse solo. «Si era scaricata.»

                                                                                                                                                          Un racconto di Giulia Mazza

Illustrazione di Marco Pellino

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