Punti

Era tutto troppo bianco in quella stanza d’ospedale: le lenzuola, i muri, il camice del dottore, le facce dei suoi genitori. Si sentiva intontita. L’unica cosa certa era quel fastidio fisso al braccio, l’odiosa cannula della flebo. Guardò verso la sacchetta ma non riuscì a mettere a fuoco il testo impresso su di essa. Non era in ansia, sapeva che probabilmente erano solo fluidi e un po’ di antidolorifico, forse anche dell’antibiotico. Come il contrario di un sogno, i ricordi cominciarono a scorrerle nella mente. Si sentì sollevata e grata, l’esatto connubio di sentimenti che aveva sperato di provare prima dell’intervento.

«Allora, come ci sentiamo?» le chiese il dottore.

«Un po’ confusa, e mi dà fastidio la flebo. Però bene.»

Si girò verso i suoi genitori. Avevano i volti stanchi, ma c’era anche in loro un’aria di sollievo.

«Senti qualche dolore?»

Fece segno di no con la testa, e in quell’istante sentì la pelle sul fianco tirare. Il battito cardiaco schizzò alla consapevolezza che lo aveva fatto davvero, se ne era liberata. Era diventata normale.

I maglioni informi, gli sguardi, l’inadeguatezza erano solo un ricordo.

«Il decorso procede bene e i valori sono positivi. L’operazione è riuscita perfettamente. Ti ricordi della sala risveglio?» chiese il dottore.

Scosse la testa. Spinta dall’abitudine e dalla curiosità la sua mano arrivò al fianco. Si era mossa piano, senza farsi notare da nessuno, sotto le coperte. E nonostante sapesse che non avrebbe trovato nulla ad attenderla, si sorprese.

«È un normale effetto dell’anestesia. Come dicevo ai tuoi genitori abbiamo avuto solo qualche piccolo problema, ma tutto si è risolto per il meglio» disse il dottore.

«Problema?» chiese sforzandosi di sembrare più preoccupata di quanto non fosse.

C’era altro nella sua mente. Prima dell’operazione quell’idea l’aveva già sfiorata: il senso di colpa. Ne aveva parlato con la mamma e il dottore, che l’avevano rassicurata. Loro, a ragione, credevano che fosse la paura per l’operazione o per il cambiamento. Giusto, c’era anche quello. Ma c’era qualcosa di più sottile e profondo che le sembrava avesse a che fare con quel sollievo che di fatti provava.

Due sentimenti attaccati insieme come quei due lembi di carne, nascosti dalla fasciatura, sopra cui indugiava la sua mano.

«Non è il caso di agitarsi. C’è stata una perdita di sangue consistente, e l’operazione è durata più a lungo del previsto, ma nulla per cui non fossimo preparati. Hai solo dormito un po’ di più.»

«È sempre stata così pigra» disse la madre.

Risate di sdrammatizzazione.

Poté solo ipotizzare l’angoscia dei presenti. Ma era viva. Solo un po’ confusa. Dovevano essere i farmaci o l’anestesia. Con le dita sfiorò la zona in cui era nascosta la ferita.

«Sei contenta, finalmente? Ti senti più leggera? Da oggi inizia una nuova vita.»

«Sì» disse accennando un sorriso e annuendo con la testa.

Le sembrò di sentire qualcosa di strano. Era forse il drenaggio?

Il dottore e i genitori continuavano a parlare. Si stupì di come riuscisse a rispondere, annuire, sorridere al momento giusto senza seguire il discorso. Perché adesso la cosa più importante era quello che le sue dita stavano scoprendo. Avrebbe giurato di percepire con i polpastrelli una leggera lacerazione nella fasciatura. Pensò alla ferita che l’aspettava là sotto, ogni singolo punto cucito sulla pelle. Dovette stringere forte i muscoli delle cosce per non scoppiare a ridere quando si immaginò come un orlo di jeans. Si disse che dovevano essere i farmaci, ed ebbe ancora più voglia di ridere.

Ma passò. No, non era l’orlo di un jeans. Era un vestito vecchio rattoppato e rimodellato per piacere ancora. Tolto un pezzo di stoffa, un pizzo fuori moda, una tasca di troppo, e poi ricucito insieme. Con un filo diverso, una mano diversa.

«Si vedrà la cucitura?» chiese.

«Intendi la cicatrice? Ne abbiamo già parlato, ricordi? Sarà appena percepibile.»

Annuì con la testa.

Quella cucitura era il suo limite, il muro che separava il passato dal presente, il suo vecchio sé da quello nuovo. Qualcosa era andato via, qualcosa era rimasto, forse qualcosa era nato. Era un portale spazio-temporale.

Le dita continuarono a esplorare l’area. Qualcosa non tornava, ma sapeva di essere confusa dai farmaci, quindi il sentire quella lacerazione nelle bende allargarsi sotto il suo tocco non l’allarmò.

«Non dovrai spaventarti quando toglierai il bendaggio, la ferita ti sembrerà più brutta di quello che è in realtà. Ma guarirà presto e alla fine sarà solo un ricordo lontano.»

Sorrise alle parole del dottore e il senso di colpa la pugnalò. Era forse più forte dell’angoscia dell’aver sentito qualcosa muoversi sotto le sue dita. Certo era intontita dai farmaci, ma avrebbe giurato che qualcosa, da dentro, stesse premendo fuori.

«Dottore, senta, ma è possibile che ricresca?»

Aveva la vista un po’ annebbiata, ma riuscì a cogliere gli sguardi incerti e imbarazzati dei suoi genitori verso il dottore. Questi rise, e fece loro un gesto per calmarli, come se lei non fosse lì.

«No, l’arto del gemello parassita non ricrescerà, puoi stare tranquilla» le disse il dottore. Poi lo sentì aggiungere a bassa voce ai suoi genitori: «Tranquilli, è un po’ confusa dall’anestesia e dai farmaci».

Aveva la vista sfocata e la testa pesante. Trattenne le lacrime e con il dito spinse dentro la ferita l’altro dito, quello che indesiderato si era fatto strada verso l’esterno dall’interno della sua carne.

Un racconto di Desi Battaglia
Illustrazione di Gianmarco De Chiara

 

Lascia un commento