Cloro

Una volta le piaceva nuotare.

Se ne stava in piscina per ore. Lui, fuori dall’acqua, le diceva cosa fare, lei obbediva. Parlavano spesso, dopo l’allenamento, mentre lui se ne stava in piedi contro il buio e lei riusciva a vedere solo i contorni del corpo. Delfino, dorso, rana, stile. Lo ripeteva ciclicamente e lei eseguiva con grazia. Era brava, lo sapevano entrambi. La respirazione era precisa al centesimo di secondo. Dalia si fletteva sulla superficie limpida come fosse il suo ambiente naturale. Non lo era, in realtà. Stava attenta a sgusciare sempre a pelo d’acqua, senza farsi mai inghiottire. Si muoveva come un ago al contrario: scuciva quella tela azzurra, che dopo ogni vasca tornava compatta, e così tutte le volte.

L’acqua era pesante.

Quella sera era sfiancata. Aveva nuotato per ore e non si era mai fermata. Era arrivato il momento di andare via, di tornare a casa. Scivolava piano verso la scaletta, dandosi spinte con i piedi.

Lui uscì dal buio e si piegò sulle gambe, con il solo volto che adesso veniva illuminato dai riflessi celesti della piscina. Lei lo guardò. I lineamenti delicati non favorirono alcun sorriso. Negli occhi c’era il buio e le pupille se ne stavano lì, nere e immobili. Le disse di togliersi la cuffia. Lei lo fece e fu doloroso. Si sentì strappare via i capelli umidi, che presero a volteggiare sull’acqua. Poi strinse la cuffia tra le mani. Lui tese la mano. Dalia non si mosse.

Dammela, le disse. Lei gliela porse e seppe che non l’avrebbe più riavuta indietro. L’uomo prese la cuffia e la strizzò, facendola gocciolare tra le dita e le nocche sul pavimento. Poi la sollevò e la portò al viso. Chiuse gli occhi neri e ne assaporò l’odore. Non poteva che sapere dei capelli di lei, e di cloro.

Le disse di restare ferma, che sarebbe tornato subito. Sparì di nuovo nel buio.

Dalia obbedì. Lui era il maestro, e le aveva detto che quando era in piscina doveva fare tutto quello che le diceva: erano le regole.

Si guardò i capelli biondi. Le punte si muovevano come fumo sotto la superficie, come se avessero preso fuoco. Provavano a tornare inutilmente a galla.

Non voltarti, si sentì dire dalla voce di lui dopo un po’. Lei non si mosse.

Avvertì il corpo di lui scivolare dentro la piscina, alle sue spalle. Fece rumore: era meno dolce con l’acqua, che prese a vibrare contro di lei a ogni suo passo. Dalia aveva le mani strette attorno alle proprie braccia, perché stava immobile e iniziava a sentire freddo. Le dita e le labbra le tremavano.

Percepì i respiri profondi di lui dietro di sé, l’alito caldo sul suo collo. Mise le mani su quelle di lei e le spinse verso il basso, schiudendo il guscio che aveva provato a sigillarsi intorno. Provò a fare resistenza, ma lui era più forte. E poi era il maestro, e doveva obbedire. Le abbassò le spalline del costume sulle braccia, poi sui gomiti. Dalia vide finalmente le mani di lui sott’acqua, che le si poggiarono sul bacino e risalirono sul corpo fino ai piccoli seni nudi, immersi quasi del tutto nella superficie azzurra. Lui li tastò e appoggiò il proprio corpo contro la schiena di lei. Le prese i capezzoli irrigiditi tra le dita e li strinse. Dalia soffocò il dolore. Il fiato di lui divenne sempre più forte, fino a quando sentì i baci sul collo e sulla mandibola. Lei aveva provato a chiudere gli occhi, ma si era accorta che era peggio. Si mise a fissare le increspature flebili dell’acqua. Lui fece scorrere di nuovo una mano verso il basso, lungo le curve appena accennate di lei. Le mise una mano tra le gambe e afferrò una coscia per divaricarle. Poi tornò sull’esterno della gamba, accarezzandola. La portò indietro e le tastò il sedere, mentre faceva scorrere il proprio sesso eretto nell’incavo tra i glutei. Le scostò il costume e mosse le dita sulla leggera peluria del suo ventre.

Non entrò subito. Il corpo cercò di proteggersi, ma non fu abbastanza. E poi, lo sapeva. Lui era il maestro e anche il corpo doveva obbedire.  Si sentì strappare e fu convinta che non si sarebbe mai ricucita.

Lui le entrava dentro e ad ogni colpo sembrava farsi sempre più spazio. Le pareti di lei si allargavano contro il suo volere e accoglievano al proprio interno un altro corpo vivo. Le mise le mani sui fianchi e cessò di spingere. Iniziò a far muovere il bacino di lei, che non aveva più necessità di gridare. Erano le sue pareti adesso ad avvolgersi attorno al corpo vivo. Liberarono il sangue che prese a fluttuare nell’acqua intorno a Dalia; lo vide attorcigliarsi in rivoli davanti a sé. Era reso luminoso dalle luci che stavano sul fondale e illuminavano tutto quanto come riflettori attorno a un palco.

Lui le mise due dita in bocca e le esplose dentro con un rantolo rabbioso, poggiando il mento sulla spalla di lei, che quel fiato non lo sentiva più.

Le accarezzò i capelli.

Il maestro uscì dalla piscina come era entrato, da dietro, senza farsi vedere.

Le parlò un’ultima volta.

Non dirlo a nessuno, le disse.

Dalia rilassò le gambe e si mise a galleggiare. Il costume le si era strappato tra le gambe e non avrebbe potuto più usarlo: era impossibile da ricucire.

La tintura rossa veniva lentamente pulita via dallo scarico, che presto avrebbe cancellato ogni traccia.

Faceva freddo.

La voce le si gelò in gola.

Il cloro le sigillò le labbra.

Un racconto di Francesco Aloia

Illustrazione di Melissa Brusati

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