Mai toccato

L’anima di Paolo è come acqua. Come la pioggia che ora scroscia su strade e tetti e piazze e palazzi: senza forma, malleabile, universalmente amorfa. Ma Paolo non crede nell’anima, quindi è meglio dire personalità.

Dicevo, la pioggia scroscia violenta, picchiando sulle finestre come se volesse irrompere nella cucina dell’appartamento dove Paolo sta guardando uova rotte su una padella rovente, e comunque né lo scroscio né lo sfrigolio sovrastano il suo acufene.

Il giorno dopo, un venerdì, Paolo si sarebbe presentato in sede di colloquio con la cravatta nuova, comprata a poco per l’occasione, e avrebbe sentito sempre quel fischio interminabile e stordente nei timpani, pioggia o no. Avrebbe potuto piovere all’infinito, qualsiasi cosa gli avessero mai detto: tutto sarebbe stato, come sempre, sovrastato da un rumore di fondo, così continuo che Paolo lo associava alla sua stessa vita.

Non aveva mai veramente ascoltato niente, non aveva parlato con nessuno, se non attraverso quella membrana sonora, che faceva scivolare, senza toccare nulla, la sua personalità sul mondo circostante, incollando e separando. Ma Paolo non crede nella personalità, quindi è meglio dire ego.

Ecco, l’ego di Paolo è un non ego, un punto vuoto. Ci sono voluti anni per capirlo, passati con lo sguardo su superfici sibilanti, nella sua cucina, sotto piogge incessanti e rumore di traffico e chiacchiericci di vite, per capire che lui non era sotto quel rumore: lui era il rumore insensato che lo tormentava, un suono non articolabile in niente.

In sede di colloquio, domani e per i prossimi tre mesi se era fortunato, Paolo sarebbe mutato di nuovo: come un bravo attore, secondo un bravo copione, ma gli attori sanno quel che fanno, studiano e sgobbano per farlo, Paolo si scopre solo ora a essere un talento innato e, soprattutto, inconscio. Paolo non è mai stato nessuno, se non un involucro avvolto intorno, appunto, a un ego vuoto.

Anche se Paolo, alla fine, non crede nell’ego, quindi è meglio dire interiorità.

E nella sua interiorità, ma quella più esteriore, quella che gli esseri umani normali proiettano intorno a loro e che lui lascia invariabilmente in bianco, quell’intima esteriorità asettica che era casa sua, Paolo non sa trovarsi. Mentre mastica le uova bruciate, nemmeno ricorda se quello è il suo piatto preferito per quanto semplice, o se non preferirebbe altro.

Mentre sistema il completo per il colloquio del giorno seguente, scorre maglie appese e pantaloni piegati e non riconosce nulla: era roba sua, di un precedente inquilino, o vestiti di necessità? Quel completo gli piaceva, o per sei mesi lo avrebbe indossato come si indossa una maschera? La risposta, per Paolo, non esiste.

E mentre ripensa alle decine di vite, le decine di pelli che ha cambiato solo per trovare il niente, Paolo arriva al fondo della cassettiera di un mobile Ikea che non ricorda chi ha comprato, e lì trova un flacone di pillole, Xanax per attacchi di panico che non ricorda di aver avuto, e alla fine si chiede se quella vita senza scopo fosse quella che voleva.

Con le palpebre pesanti, sdraiato sul letto, viene accompagnato nel buio dal maledetto, terrificante suono acufenico e instancabile, il suono che gli trapana l’interiorità. Ma, ora che ci pensa, Paolo non crede nell’interiorità, né nell’ego, né nella personalità, né nell’anima. Quindi è meglio dire niente.

Illustrazione di Marco De Simone

Guido Zanetti

Guido nasce a Genova nel 1992. Cresce a Pavia, dove studia filosofia per tre anni e tre quarti. Corre a Torino, dove studia sceneggiatura alla Scuola Holden.

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