Il cane

Io e Valeria trovammo Eros una decina di anni prima, nelle campagne senesi, mentre facevamo l’amore. Ce ne stavamo sdraiati su un plaid, tra i fili d’erba, quando lo sentimmo guaire e zampettare verso di noi. In un primo momento ci spaventammo, ma poi tra i fiori spuntò il suo muso grigio con gli occhi azzurri. Si accoccolò tra noi come se ci conoscesse da sempre, senza alcuna paura. Era in perfetta salute e non doveva avere più di qualche mese. Io e Valeria lo portammo a casa e poi ovunque, sempre con noi, senza mai separarcene. Fummo uniti e felici per dieci anni, finché lui non morì. Da qualche mese era malato e debole, non aveva più la forza di uscire, di salire sul letto per addormentarsi tra noi. Era stanco. Un giorno tornai a casa e Valeria stava piangendo; capii. Lo mise in una scatola e decidemmo di seppellirlo in quelle stesse campagne dove io e lei avevamo fatto l’amore. Lo caricammo nel bagagliaio della macchina – era una domenica – e partimmo. Durante il tragitto Valeria fu piuttosto silenziosa. Provai a ricordarle qualche aneddoto di noi tre per farla sorridere; in un primo momento sembrava divertita, ma poi si fece sempre più cupa e taciturna. La strada di campagna era messa male, e ce ne accorgemmo quando sobbalzammo per colpa di una buca e le nostre teste quasi toccarono il tetto della macchina. Accesi una sigaretta. «Ma cosa gli costa rimettere a posto queste strade?» dissi. «Bisogna fare lo slalom per non rischiare di farsi male». Valeria si prese la fronte tra l’indice e il pollice, poggiando il gomito destro sul bracciolo. «Possiamo evitare di parlare?». Attorno a noi, su entrambi i lati della strada, schiere di girasoli che sembravano infinite. Buttai fuori il fumo dalle narici. «Non parliamo, va bene. Sai cosa penso? Che è questo il problema di tutto: non parlare, non dire, non fare. E le buche rimangono lì dove sono». Valeria sembrò destarsi all’improvviso dal torpore e mi strinse il braccio. «Fermati» disse, «devo fare una cosa». Accostai in uno spiazzo sul lato destro della strada. Lei scese dalla macchina e la vidi camminare per qualche metro più indietro, verso una cabina telefonica che non avevo notato. Non sapevo con chi stesse parlando, né glielo avrei chiesto. Sporsi il naso fuori dal finestrino aperto: odore dolciastro, di terra. Mi guardai attorno, non c’erano segnali che ci indicassero la strada, ma io la ricordavo bene. Poi Valeria tornò in macchina, chiuse lo sportello e mi fece cenno di ripartire. Non disse nulla. Poco dopo imboccai il sentiero sterrato e mi fermai. Scendemmo, lei prese la vanga e io il cane, e camminammo fino al punto in cui lo avevamo trovato. Scavai una buca non troppo profonda, e mi accorsi che la scatola non ci sarebbe stata. Scavai più a fondo. C’era il sole, e ogni colpo mi costò fatica. Quando la buca fu pronta, Valeria prese la scatola e ve la posizionò. La accarezzò come se la stesse pulendo dalla polvere, poi mi guardò. Aveva gli occhi lucidi. Mi porse la vanga. Mi tremavano le mani. Indugiai per qualche secondo, e gettai un briciolo di terra nella buca. Valeria si morse il labbro, poi mi prese la vanga dalle mani e iniziò a seppellire Eros. «Scusa» disse, «è che non abbiamo più tempo». Lo ricoprì e rimanemmo immobili, a fissare quel cumulo di terra. «Mi dispiace» disse. «Anche a me». Mi guardò. «Pensi che ne prenderai un altro?». «No di certo. Ci vorrà molto tempo prima che possa anche solo pensarci» risposi, senza staccare gli occhi dal cumulo. Valeria tacque, e io feci lo stesso. Non ci muovemmo per qualche minuto: in piedi, lo sguardo basso. «È ora di andare» disse poi. Salimmo in macchina, e dallo specchietto vidi sfumare prima il cumulo, poi i campi, poi la polvere. La radio era spenta. Le buche non le sentivo più. «Puoi portarmi alla stazione? Torno dai miei per un po’» disse. Mi voltai verso di lei. Fissava fuori dal finestrino. «Va bene» dissi. Alla stazione aspettammo il suo treno per quasi un’ora. Poi gli altoparlanti lo annunciarono, e lo vedemmo arrivare. Ci stringemmo le mani e ci baciammo sulle labbra. Avevo voglia di piangere. Mi disse ciao, mi carezzò il viso e salì sul vagone senza voltarsi. Il treno si allontanò fischiando, lo vidi scorrere di fronte ai miei occhi fino alla coda e non so perché, ma mi tornarono in mente tutte le volte in cui avevo slacciato il collare di Eros per farlo vagare nei campi. Questa volta, sapevo, non sarebbe più tornato.

Un racconto di Jacopo Milani

Illustrazione di Maria Sciannimanico

 

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