Il tesoro nascosto

L’acqua si era ritirata dopo una settimana lasciando una distesa di fango attorno alla casa. La Laguna aveva cercato di conquistare territori che non le appartenevano. Luigi aveva contemplato con incanto quella crema color cioccolato, poi la noia lo aveva sopraffatto. Quando la terra ricomparve era diversa da come la ricordava. Non si era trattato di un acquazzone, capace di scompigliare i giochi di un pomeriggio lasciando la terra umida solo in superficie; stavolta delle mani giganti avevano giocato con gli ingredienti come faceva sua nonna prima di andarsene di casa. Concentrata, la croce d’oro che le ballava sul petto, china sul ripiano, le braccia che si allungavano e si ritraevano, le dita sporche d’impasto; poi lei gli chiedeva uno straccio, si puliva le mani, gli sorrideva. Quel sorriso valeva più del profumo del dolce, più della soffice eleganza dell’impasto lievitato. Quando era scappata nel cuore della notte, senza spiegazioni, senza salutarlo, qualcosa si era spezzato. Se fosse stato più grande avrebbe saputo spiegarlo, non sapeva dove si trovasse il cuore.

La scuola era chiusa ancora per un paio di giorni e anche se il cielo virava verso il grigio e davanti  casa l’acqua pareva sempre sul punto di bussare alla porta, sua madre gli concesse di uscire. Chiamò Franco e indossò un paio di pesanti stivali di gomma. A novembre, certe giornate di pioggia venivano accompagnate da un vento marcio che si appiccicava alla pelle come sudore. Franco propose di cercare i tesori che l’acqua aveva svelato. Presero un secchiello e salutarono il vecchio Mario dall’altra parte del fosso. Il nonno di Luigi li guardava dalla serra, con gli occhi così azzurri da sembrare privi di colore, la pelle arrossata dal sole e dal freddo, le vene viola sul naso, rinvigorite da ogni passaggio in cantina e i capelli gialli e unti. Seguiva ogni loro movimento e con le mani passava la pietra per affilare l’ascia con cui avrebbe spaccato la legna per l’inverno.

Percorsero i campi a schiena curva, quando sembrava che avessero trovato qualcosa si inginocchiavano, scavando con le mani, con affannata gioia. Dopo qualche ora il cielo iniziò a farsi buio e il secchiello era colmo di tesori. I chiodi arrugginiti erano d’oro, i pezzi di porcellana venivano dalla Persia, le biglie in terracotta dall’Egitto e le pietruzze azzurre erano gioielli di inestimabile valore. Mancava solo da spartirsi quel ben di Dio. I due bambini iniziarono a correre soddisfatti verso il portico di casa. Franco era il più veloce, indossava stivali della sua misura, quelli di Luigi, nella corsa, lo rendevano impacciato. Impegnato com’era a guardare davanti a sé nello sforzo di raggiungere l’amico non si accorse della pozzanghera. Vi entrò con foga, ma i passi diventarono presto pesanti, cadde in avanti, con la gamba intrappolata dalla melma. Si rialzò a fatica, in equilibrio precario si accorse di non avere più lo stivale destro. Franco rise, dall’altra parte del fosso, con uno sguardo bonario, Mario gli chiese se si fosse fatto male. Luigi rispose di no. Disse di aver sentito un risucchio provenire dalla terra, come se qualcosa lo avesse trattenuto e non volesse lasciarlo andare. Mario si unì alla risata di Franco, appoggiò le mani sui fianchi e disse a Luigi che adesso doveva rimboccarsi le maniche.

Chiese a Franco di dargli una mano, si inginocchiarono ai bordi della pozzanghera, l’amico gli disse che era stato fortunato, quelle erano le famose sabbie mobili del Sahara, sarebbe potuto sparire per sempre. Luigi non aveva idea se nel Sahara ci fossero sabbie mobili e non sapeva nemmeno dire dove o cosa fosse questo Sahara, però era certo che non potesse essere lì. Con cura iniziò a scandagliare il fango, sembrava impossibile che lo stivale fosse finito così in profondità, poi le mani toccarono qualcosa di solido, tirò con tutte le sue forze e quando ad uscire dall’acqua fu un bastone ne fu deluso. Mollò la presa e si rituffò nella ricerca, ma lo sguardo era fisso su quel pezzo di legno dalla forma strana, come se assomigliasse a qualcosa di familiare, una forma conosciuta, ma diversa quel poco che bastava a confondergli le idee. Lo riafferrò e lo tenne tra le mani, Franco si era immobilizzato, i due si guardarono negli occhi e parvero capire di cosa si trattasse nello stesso istante. Erano dita, dita attaccate ad una mano. Dalla pozza uscì una parte di un braccio e della stoffa. Franco urlò, Mario si accorse che qualcosa non andava, attraversò il fosso e si precipitò ansimando, lo sguardo si fece prima pensieroso e poi inorridito. Cominciò a scavare, a poco a poco i resti ossei tornarono in superficie, accompagnati dal grigio della sera. Luigi non riusciva a distogliere lo sguardo da quello spettacolo, le ossa scure che grondavano fango, i vestiti consumati, lacerati, il teschio spaccato in due e appesa al collo una croce d’oro.

Guardò verso casa, vide la sagoma di suo nonno alla finestra del bagno. Poi la luce si spense e non lo vide più.

Qualche ora dopo arrivarono i Carabinieri, l’andatura stanca, la macchina dipinta di marrone dalle strade sporche. Luigi assistette alla scena dalla sua camera da letto. I carabinieri parlavano con Mario, gesticolavano. Poi entrò suo padre e gli ordinò di spegnere la luce e andare a dormire.

La mattina successiva, quando si svegliò, il nonno non era in casa.

Un racconto di Gianluigi Bodi

Illustrazione di Giulia Canetto

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