Distanze

401.

Sono 401.

Parto dalla periferia della mia città alle 19:30 per arrivare nella periferia della solita altra città alle 2:00. La strada è dritta. Dal carico allo scarico guido con un fazzoletto in mano, freni e frizione li tocco raramente. Le luci posteriori di autocarri e furgoni mi cuociono le iridi. Durante i sorpassi tengo la freccia sinistra accesa, ticche tacche, ticche tacche, ticche tacche. Mi faccio riconoscere. Io sono quello con i sigilli arancioni.

 

Arrivo allo scarico un minuto prima delle 2:00, “Posso aprire?” chiedo saltando fuori dal mezzo, “Sì!” risponde il capoturno mostrandomi il dito medio.

Estraggo la tenaglia dalla tasca, taglio le fascette che bloccano i portelloni e mi assicuro che i manovali dalle tute blu e gialle non mi rovinino il mezzo mentre scaricano. Pure Marta, bassa e coi capelli corti e lisci, porta quei colori. Ha la pelle del viso levigata tipo tavolo di legno finto e cosparsa di nei, uno grosso sotto lo zigomo destro, uno più piccolo sulla fronte e altri minuscoli su tutte e due le guance. Mi saluta sempre, sbraccia come una zia che non vede il nipote da un secolo e, “Come stai? Fatto buon viaggio? Trovato nebbia? Vento? Pioggia?”

“No,” dico io “strada asciutta, e poche macchine,” specifico appoggiandomi a un pilastro di cemento. Mi chiede sempre se voglio un caffè, ma rifiuto guardando oltre — il suo sguardo pesa, poi si gira e va verso il furgone per dare una mano ai suoi colleghi. Mentre fumo la decima John Player blu della nottata, la fisso, lei se ne accorge e sorride, io abbasso la testa e con i brividi sotto i capelli fingo di avere la cerniera del giubbotto incastrata, poi ricomincio a guardarla, da sotto a sopra. Ha il culo compatto, e la pancia di una che mangia regolare. Una volta l’ho vista in canotta, ha le braccia coperte di fiori e piante. Il suo modo di muoversi mi fa viaggiare con la mente, cammino a passo svelto verso il bagno, entro, mi guardo allo specchio: pallido, occhi gonfi, pupille strette, narici arrossate, labbra secche, e odore di gasolio che esce da ogni poro. Mi lavo la faccia con acqua fredda e sapone, esco, raggiungo il capoturno che mi consegna la bolla di chiusura mandandomi nuovamente a fare in culo, rispondo allo stesso modo e prima di partire con il fazzoletto stretto in mano, “Buon rientro! Dopo ti chiamo!” dice Marta accarezzandomi il braccio.

Tutte le volte la stessa storia, lei mi chiama, io non rispondo. Mi chiama, non rispondo. Mi chiama, non rispondo.

 

Apro il cofano, controllo olio e acqua mentre lei mi guarda, fingo indifferenza, i liquidi sono a posto, richiudo; entro in cabina e via, verso il distributore.

105 euro di gasolio, ritiro lo scontrino e do un’occhiata alle gomme. Prima di tornare in autostrada percorro 70 chilometri di tangenziale, un anello dall’asfalto malandato che circonda la città, raggiungo il casello, lo supero ed entro nel buio.

L’area di servizio Visciola est si trova al chilometro 465. Parcheggio di fronte all’entrata, lontano dai colleghi che dormono nei camion con le tendine abbassate. L’insegna della stazione è ingombrante e a luce fredda.

Il bancone è pieno di tazze e tazzine imbrattate di caffè e schiuma di latte.

“Ciao! Come stai?” chiede Viola, “Bene, e tu?” rispondo io.

Ha una bella dentatura e la pelle chiarissima. Corre come una matta dietro al banco tutta la notte. Quando non c’è gente, passa in sala scopa e straccio bagnato. Si avvicina e mi si struscia contro, ha il culo pieno. Si ferma con lo spazzolone in mano e avvicina la sua bocca al mio collo, mi scosto chiedendole un caffè, “Subito fatto!” dice con lo sguardo sul pavimento e le labbra asciutte. Me ne prepara uno doppio in tazza grande con panna montata e cacao, “Ci vediamo fuori quando stacco? Mi aspetti?” chiede lei “Va bene,” dico io. Svuoto la tazza fino all’ultima goccia; Viola ricomincia a correre, sforna pane e cornetti, pulisce ogni ripiano con acqua e ammoniaca, io la fisso, lei mi strizza l’occhio. Esco sul piazzale, mi accendo una John Player, raggiungo il furgone, mi ci butto dentro e attendo la fine del suo turno.

Alle 6:15 vado sul retro dell’Autogrill, dove abbiamo appuntamento. Accosto vicino a un convoglio scassato. È ancora buio e fuori c’è il ghiaccio. La vedo uscire da una porta di servizio, regge una borsa in pelle nera e un cappotto di lana lungo fin sotto le ginocchia. Cammina svelta guardandosi intorno. Ce l’ho duro, faccio per scendere ma sento lo stomaco intorpidirsi e i brividi sotto i capelli. Vorrei abbracciarla, riempirla di parole gentili, mordicchiarle guance e lobi delle orecchie, ma prima che riesca ad avvicinarsi troppo, metto in moto e me ne vado.

 

Il manto stradale rifatto da poco evidenzia le strisce bianche dipinte dagli uomini in divisa arancione. Il cielo schiarisce e la brina si scioglie.

Immaginando Marta con il telefono ancora in mano e Viola con gli occhi bagnati a una distanza di sicurezza di 400 chilometri, accelero con in bocca il fazzoletto e i pantaloni della tuta abbassati.

Un racconto di Andrea Pauletto

Illustrazione di Angelo Policicchio

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