La più alta

Avevo nove anni ed ero una ballerina. Secondo la maestra di danza, la più grintosa di tutte. Mi piaceva essere “la più” in qualcosa. Andavo fiera del mio entusiasmo e non perdevo occasione di sfoggiarlo. Regalavo grandi sorrisi a tutti, mi mettevo sempre in prima fila, ero la prima a raggiungere la sbarra e quando arrivavano le altre i miei piedi segnavano già le tre meno un quarto.

Un giorno la maestra mi chiese di spostarmi indietro, perché altrimenti non sarebbe riuscita a vedere le mie compagne. Venne avanti Lara, una bimba minuta con le gambe lunghe. Arrivai in fondo al gruppo, guardai le altre bambine. A vederle così, di spalle, si assomigliavano tutte. Lara si confondeva tra loro, con lo chignon appollaiato sulla testa e le scapole sporgenti.

Non avevo mai guardato i loro corpi. Non così.

“È perché sei la più alta”, disse mia madre quando le raccontai ciò che era successo. La sua risposta mi mise di buonumore, essere “la più” mi faceva sempre il solletico allo stomaco.

Per lo spettacolo di fine anno mi fu assegnato il ruolo di Lucifero, il gatto. Ne fui entusiasta. Il ruolo di Cenerentola andò a una delle mie compagne in prima fila, quello della matrigna a Lara.

Per le prove, la maestra riuscì a ottenere un’aula più grande, con una parete coperta di specchi. Inseguivo i topolini (due sorelle straordinariamente simili, dai tratti spigolosi) a passi di danza, volteggiavo su me stessa, saltavo e atterravo, e il parquet sotto di me scricchiolava come non scricchiolava quando erano le mie compagne a saltare. Non penso me ne sarei mai accorta, se Lara non si fosse lasciata sfuggire una risatina. Sogghignavano tutte, ma lei aveva dimenticato di far piano.

Presto arrivarono i costumi di scena, confezionati su misura.

Il mio era un body nero, con una coda imbottita che partiva dall’attaccatura posteriore del tutù. Io e le mie compagne ci svestimmo, frettolose, negli spogliatoi; tirai il body su e la pancia in dentro, lo sistemai sulle spalle. Poi mi guardai allo specchio: il tessuto nero mi si era attaccato addosso e pensai che sarebbe scoppiato da un momento all’altro.

Dietro il mio riflesso comparve quello di Lara. Aveva il viso ossuto contorto in una smorfia, fissava la mia pancia e cercava di non ridere, o almeno fingeva di cercare di non ridere.

“È il costume che è piccolo o sei tu che sei grassa?”

Altre mie compagne – i topini e la fata Turchina – affollarono lo specchio. Sentivo le cosce prudere l’una contro l’altra. Mi chiusi in bagno. La stoffa mi segava le spalle, così abbassai le bretelle per attenuare la pressione.

Non so per quanto tempo rimasi nel bagno degli spogliatoi. Secondo me ore, secondo la maestra – il cui invito a uscire mi raggiunse da dietro la porta – solo pochi minuti. Mi spiegò che, con ogni probabilità, la sarta aveva sbagliato le misure. Le credetti.

Mi asciugai le lacrime e mi svestii, abbandonando il body troppo piccolo.

Fu allora che Lara allungò una mano e lo prese. Vi fece scivolare le sue gambe asciutte, il busto e le braccia. Il body non minacciò di scoppiare: le stava alla perfezione.

“Posso tenerlo io, maestra?”, domandò. Sentii i miei occhi pizzicare.

“Non puoi, è il mio costume!”

“Non è il tuo costume, non ci entri!”

La maestra pose fine alla discussione: il costume sarebbe tornato alla sarta, che ne avrebbe confezionato un altro.

“Mamma, io sono grassa?”

Ricordo lo sguardo che mi rivolse, da dietro la forchetta con gli spaghetti arrotolati. Ricordo la sua fronte aggrottata, e il secondo di troppo che impiegò per rispondere.

“Ma no, che dici?”

Il mio piatto era vuoto da un pezzo e le mie dita si palleggiavano una mollica di pane. La misi in bocca e masticai.

I miei occhi si fecero più severi. Mi cercavo su ogni superficie riflettente. Premevo il cuscinetto di pelle nell’incavo della mia spalla, nel tentativo di nasconderlo. Tiravo la pelle delle cosce di lato, per vedere come sarebbe stato se tra loro ci fosse stato spazio. Tracciavo col dito il profilo della mia clavicola e speravo che il giorno dopo sarebbe diventato più sporgente.

La sensazione degli occhi delle mie compagne sul mio corpo mi si era appiccicata addosso. Il pubblico, nella mia mente, aveva ormai assunto la forma di un enorme occhio che aspettava soltanto di studiarmi, giudicarmi e chiedersi se era piccolo il costume o grassa io.

Il nuovo body nero era arrivato, e io avevo detto alla maestra e a mia madre che mi calzava a pennello; la verità era che non lo avevo ancora estratto dalla fodera, e neanche lo avrei fatto.

Continuavo ad andare a lezione. I corpi delle mie compagne erano sempre più affilati, e il mio sempre più tondo. La consapevolezza di essere la più grassa si fece strada dentro di me lentamente e divenne mia senza che me ne rendessi conto. Iniziai a rifiutarmi di saltare, cosa che diede alle altre un ulteriore spunto per darsi di gomito e sussurrarsi all’orecchio, e cercavo di posizionarmi dove i loro sguardi non avrebbero potuto raggiungermi.

Ma sul palco non avrei avuto alcuna possibilità di nascondermi. Il pubblico mi avrebbe fissata col suo enorme occhio e mi avrebbe inchiodata, avrebbe indicato me e avrebbe detto “lei è la più grassa”.

La maestra disse che era stato un incidente, e lo dissi anche io.

Il sabato dopo, lo spettacolo lo vidi al sicuro tra il pubblico che tanto mi aveva terrorizzato. La gamba ingessata era ingombrante, pizzicava, ma era coperta di firme. Il nome di Lara, in fucsia, spiccava tra tutti.

Le luci inondavano il palco, lasciando noi al buio. I corpi delle mie compagne eseguivano passi che conoscevo e che, al tempo stesso, mi erano del tutto nuovi. Ero incantata. Erano perfette.

“La prossima volta ci sarai anche tu lì”, mi sussurrò mia madre. Dissi di sì, ma era una bugia.

 

 

Un racconto di Sara Canfailla

Illustrazione di Nora

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