Natura morta

Ho la sua fica – il suo taglio, la sua ferita – davanti agli occhi, ma il mio cazzo non è duro abbastanza. Ci sono due pesche morte e smangiucchiate sul comodino di fianco al letto, una confezione nuova di preservativi senza lattice, una bottiglia d’acqua leggermente frizzante.

Scopare per dimostrare. Eiaculare per godere oppure per figliare.

Penso al cazzo di mio padre e alla fica di mia madre. Penso al mio cazzino, il mio cazzino minuscolo, appena uscito dalla fica di mia madre. Penso alla sua fica, la sua fica minuscola, appena uscita dalla fica di sua madre. Poi siamo cresciuti e siamo diventati adulti. Ci siamo spogliati di tutte le colpe – abbiamo nascosto i nostri cazzi giganti e le nostre fiche ben tosate sotto a un paio di mutande – siamo diventati giusti.

Le sue gambe sono tese e aperte.

“Tutto bene?”

“Come?”

“Che hai?”

“Non ho niente.”

“Non ti va?”

“Sì.”

“Allora?”

“Ho dei problemi.”

“Che tipo di problemi?”

La sua voce è lontanissima.

“Dei problemi.”

“Aspetta.”

Il suo corpo si muove, si capovolge, la sua fica mi scompare improvvisamente dagli occhi. Appare il suo viso, così carino, così indeterminato, appare il suo corpo, il suo corpo nudo e adulto che si concede e che pretende. I suoi occhi mi guardano per un attimo, rimproverandomi. Con una mano bianchissima e decisa afferra il mio cazzo – lo stringe forte, lo afferra bene, alla base – poi il suo viso sprofonda e scompare – il mio cazzo scompare – e da questo momento in poi sono solo capelli, bellissimi riccioli neri e sudati, poi la sua lingua, la sua saliva, la sua bocca, poi il mio sangue che gonfia e che tira, poi un’immagine, a occhi chiusi, la stessa immagine che si ripete sempre, la stessa pulsione di morte che sento ogni volta. Sono sotto la doccia di casa mia, la casa dei miei genitori, e il mio corpo si masturba davanti alle immagini pornografiche che scorrono sul cellulare – corpi nudi e distanti, corpi perfetti e immobili –, il mio corpo eiacula da solo, il mio sperma si mischia all’acqua che scorre senza riuscire a coprire la vergogna e il dolore che provo – dei sentimenti guasti, una sessualità priva di affetto, un disamore costante. E in quel momento non mi sento buono, non mi sento vivo, non mi sento giusto.

Poi apro gli occhi e torno nella sua stanza, sopra il suo letto che scricchiola, accanto al comodino con le pesche, i preservativi e la bottiglia d’acqua.

C’è una bocca e c’è un risucchio. C’è un sesso duro e c’è la mia mano che si posa sulla sua testa e che invece di accarezzarla la spinge, la spinge giù, con forza, sempre più veloce, verso il basso.

Non più riempire ma essere riempiti. Non più possedere ma essere posseduti.

Alla fine sento il mio cazzo erigersi, dimostrare, e il mio sperma esplodere nel giro di due minuti, centrare la sua bocca – la sua fica è troppa lontana – disperdersi e colare bianco e inutile giù per la sua gola.

Poi non sento niente.

Non sento più niente.

 

Un racconto di Alessio Spinelli

Illustrazione di Melissa Brusati

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