Andreea Simionel- Conteiner- Melissa Brusati

Container

“Come siamo state brave brave oggi” dice l’infermiera.

Ritira il vassoio vuoto, fa un sorriso. Odio la sua faccia gialla come la birra brutta come il pianto larga come i mammiferi. Dice brava perché mi vuole far innervosire e pensa che io sia una bambina e mi vuole mettere alla prova, capite? E perché si aspetta che io dica cose felici e pulisca le sue mattanze spurie e la faccia ticchettare cose felici sui fogli pinzati che tiene in mano.

“Ti trovo molto in forma oggi”, dice.

Mi vuole mettere alla prova perché le pareti di tutte le stanze e i corridoi e i bagni e i ripostigli dell’ospedale sono tappezzate di specchi come nelle case dell’orrore al luna park e uno è costretto a guardarcisi camminare dentro e vede le cosce che si mescolano e rimescolano a ogni passo come grasso di mammella e deve evitare di pensare che questo è rivoltante.

“Siamo in forma oggi”

Lei vuole che io dica sì ma con tutti questi specchi uno non può fare a meno di sentirsi giallo come la birra brutto come il pianto largo come i mammiferi. Così grugnisco “mh hm” perché lei fatica a capire la differenza tra un mh hm e un mh mh e non sa quale è il sì e quale il no e penso a tutta la spazzatura che si porta nel cervello e vorrei farla a pezzi e dividerla in tante borse frigo.

“Mh hm.”

“Mh mh è un sì o un no?”

Il suo cervello è un grosso giallo brutto e largo specchio che frantumerei volentieri in pezzi e invece di parlare fa cadere parole e modi di dire dalla bocca come la stampante i fogli in terra e mi monta su una rabbia che è rabbia senza pari e gemelli.

“Sono sempre molto in forma” le rispondo, perché questa è roba definitiva come i finali. Lei però ha una discarica di container al posto del cervello e si mette a parlare a vanvera e dice “sono molto contenta”, che è una frase tutta fatta, poi dice “spero che domani farai di meglio”, che è un’altra frase tutta fatta addobbata e pronta per essere servita e lei parla sempre così, per frasi fatte, è come usare sempre la forchetta nel piatto anche dove ci andrebbe il cucchiaio.

“Temo che dovrai essere più collaborativa.”

“Mh mh.”

“Credo molto in te, lo sai?”

“Mh hm.”

Il suo parlare mi monta su tante gemme e noduli di rabbia perché temo e credo e spero e sono e brava brava sono tutte frasi fatte che stanno su come i pali della luce al vento.

“Sei più forte di questo.”

E mangio e bevo e cago e vivo e muoio sono altre frasi pronte che l’infermiera mi dà ogni giorno e si aspetta che io le dia indietro altrettanta sporcizia, come quella che i camion asportano via dai container al mattino di ogni giorno e li portano alla discarica e odio la gente che usa i modi di dire e le frasi fatte e ha discariche al posto del cervello e trasformerei volentieri la sua sporcizia in bombola a gas e la farei esplodere in grande come esplodono Zeus e gli dei.

Quando ha finito rimane ai piedi del mio letto con sopra il materassino giallo birra giallo piscio contro le piaghe da decubito e muove il culo e la testa della penna nell’aria.

“Siamo pronte per dormire?”

“Mh hm.”

“Ti abbasso le tapparelle”

La odio, odio la sua faccia e il suo container cervello perché abbassa le tapparelle del tutto di notte e quando viene la luce non si sa, si potrebbe stare in aeroporto, dentro una tana, a Parigi, con gli occhi incerottati o cuciti o spalancati che il buio la fa tutta una storia uguale a sé stessa.

“Non c’è bisogno” dico, lei però non mi ascolta e va alla finestra e prova a far scorrere il filo che è bloccato ma lei non lo sa così tira finché si aggrappa al nastro e diventa lei la tapparella che mi oscura ogni luce e la fronte le si imperla di sudore e si deve fermare con le mani sui fianchi. Mi guarda e io la guardo e lei pensa che io sia matta e io penso che lei è matta ma qui dentro è questione di chi non è matto abbastanza.

Non dice nulla ma sembra di sentire il suono di due gocce vuote che atterrano contro il pavimento della sua testa mentre pensa che due più due più due fa due. Si avvicina, muove passi e nella forma dei gomiti a uncino contro i fianchi si fa felina. Quando è accanto a me mi stringe gli avambracci nelle mani, ce li ho così sottili che può fare due giri e io dormo e vivo così, osso contro osso contro barre e tubi, come i libri sugli scaffali che dormono sul duro e non dicono mai una parola.

“Mi dispiace tanto” dice.

Al posto degli occhi ha due ruote che navigano, mi tasta dai gomiti ai polsi, mi passa le mani sul pigiama come si fa con la polvere sui soprammobili.

“Stanotte dovrai dormire senza tapparelle”

Mi palpa mi tasta mi tocca, io lo so che cerca per sapere se ho nascosto del cibo o un dente del coltello e fa un sorriso in plastica.

“Ma domani chiamiamo un tecnico”

È stanca e le sue pupille si fermano nelle mie e spera che almeno per questa sera io potrei essere tutto sommato quasi normale. Dice buonanotte, spegne la luce e si chiude la porta alle spalle e rimango io sola. Allora mi alzo e corro ad accendere le lampade perché io ho paura paura del buio capite e vorrei con me accese sempre tutte le luci. Poi mi inginocchio sul letto e incrocio le mani con gli indici puntati contro il mento come due pistole e chiedo alla luce della lampada sul muro e al signor dio se questa sera può non farmi morire, anche se non ho mangiato abbastanza e mi gira un po’ la testa e mi sento i polsi un po’ fiacchi. Se invece proprio bisogna morire allora che mi faccia avere almeno una finestrella nella tomba.

Poi mi ricordo dell’infermiera, mi alzo dal letto e apro la finestra, mi arrampico sul davanzale e sfilo il cucchiaio e la forchetta che ho infilato nei due angoli per far sì che le tapparelle non scendano di notte, me le nascondo nella manica e così domani il tecnico arriva e dice qui non c’è niente di rotto e questo manda il container dell’infermiera a farsi giri tondi tondi matti matti, capite? Faccio per scendere ma vedo che di sotto c’è quella del terzo piano nella sua camicia da notte, tutte qui abbiamo la camicia da notte bianca come divisa ma lei è fatta solo di quella e ci aleggia dentro e gira intorno all’albero in cortile e lo indaga e quando urta una pianta si gira e la interroga per due bei minuti pieni come i bicchieri all’aperitivo. Il fatto è che la gente qui ha discariche al posto dei cervelli e alcune sono marce davvero. Mi ha visto togliere forchetta e cucchiaio. Mi guarda, la guardo, le parlo da sopra il davanzale della mia finestra al terzo piano.

Le dico che non mi va aprire gli occhi in un mondo che fa già buio come la sua magrezza, mi viene male alle iridi solo a pensare al suo corpo che fa vento dentro al pigiama e a quello che la malattia ha tolto dal suo cervello container come pietanze dal frigo. Per me le mattine al buio fanno paura come a te il cibo, per cui silenzio sulle labbra, vero anoressicina? Metto l’indice sulla bocca per farle il segno di stare zitta e la mano mi scivola e tutto scivola perché l’appiglio era magro magro e qui dentro siamo tutte matte matte tonde tonde, capite?

Un racconto di Andreea Simionel
Illustrazione di Melissa Brusati 

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