Arti_mazzanti

Homeless

Qualcuno avrebbe potuto chiedergli il perché di così tanta inquietudine, sempre a viaggiare, saltando da un tir all’altro, facendo autostop negli autogrill dell’autostrada, sempre da solo, dei sudici sacchetti di plastica come borse piene di cianfrusaglie inutili e cocci carichi di memoria, su e giù per l’Italia. Dico io, se ne fosse andato almeno in Svizzera o in Austria, ma lui non varcava mai i confini della sua terra natia, che sarebbe un altro modo per dire l’Italia, ed evitava isole, tipo Sicilia, Sardegna, Elba, aveva paura dei traghetti, e delle metropoli. Dicono temesse anche le Alpi. E i fiumi. Si fidava solo delle autostrade.

Credo che si chiamasse Marco. Nessuno, a dire il vero, parlava di lui in sua assenza. E quando c’era ci bastava indicarlo, dirgli ehi tu, oppure non ce li ho due spiccioli, oppure non ce l’ho una sigaretta. Sostenere che fosse un senzatetto o un mendicante sarebbe inesatto. Era un vagabondo. Aveva un look da vagabondo. Come prima cosa puzzava. Inoltre non si tagliava mai la barba. Invecchiando gli si erano formati come dei ciuffi appiccicosi che partivano dal mento e si distendevano sul suo torace, le spalle rachitiche, la pelle olivastra e screpolata, più un mucchio d’ossa che una persona. Sembrava affetto da psoriasi e alitosi. Forse era solo una pessima igiene, ma senza dubbio quel giacchetto di pelle nera, probabilmente rubato, che teneva sia d’estate che d’inverno non gli conferiva, insieme ai pantaloni macchiati chi sa da cosa, un aspetto piacevole al tatto.

Marco parlava un italiano sgangherato e impreziosito da parolacce il più delle volte inventate nelle lunghe ore di solitudine. Non l’ho mai visto scortese con nessuno, ma ogni volta che te lo ritrovavi tra i piedi era spiacevole. E quando non c’era, quando era partito per uno dei suoi viaggi yo-yo su e giù per l’Italia, nessuno si interessava alla sua sorte. Sapevamo solo che non varcava mai i confini Italiani. Su e giù da una regione all’altra. Cosa facesse durante quei viaggi in autostop, a dire il vero non molto lunghi, non è dato sapere. Quando tornava qua da noi nessuno si soffermava a chiederglielo. Non ce ne importava proprio niente. Era una di quelle figure laterali, che stanno sullo sfondo, una comparsa nell’orizzonte complessivo del nostro campo sociale. A volte ascoltava le nostre discussioni sulle varie ragazze che ci piacevano. C’era sempre una ragazza che ci piaceva. Lui, seduto per terra di fronte a noi, ci guardava con quegli occhi luminosi che si accendevano ancora di più quando pronunciavamo parole come tette, culo, gambe o fica. Credo si masturbasse nelle aiuole di qualche piazza, la notte, quando non riusciva a dormire.

Marco ardeva di desiderio. Sono sicuro che se una ragazza avesse acconsentito a portarselo a letto avrebbe passato una delle più eclatanti notti della sua vita. Sarebbe bastato fargli fare una doccia e forse tagliargli un po’ i capelli e la barba. Sotto tutti quei peli sudici si nascondeva un volto non dico bello, ma neanche brutto. Sono certo che molte splendide donne abbiano fatto sesso con uomini ben più orribili di Marco. Eppure neanche ci provava. Se lo interrogavi sulle sue esperienze sessuali, se ne rimaneva in silenzio, anche se una volta (eravamo solo io e lui) mi disse che si era scopato una senzatetto a natale. Aveva messo da parte una cinquantina di euro, che aveva usato per andare dal barbiere, farsi una doccia ai bagni pubblici e comprare del vino di pessima qualità. I due lo avevano fatto in un albergo ad ore. I suoi occhi sembravano così malinconici.

A dire il vero era piuttosto silenzioso su tutto, tranne che nel giudicare gli altri. Quando si trattava di sputare veleno contro una categoria umana, diventava più spiacevole quanto più ti conosceva, allora tu ti domandavi come mai su tutto il resto tacesse. Era come se ogni volta che apriva bocca palesasse una saggezza sulla vita che per noi sembrava irraggiungibile, ma appena il discorso virava su argomenti particolari e non più generali, si esplicitava in lui un enorme buco, un vuoto, un non vissuto. I suoi silenzi mi inquietavano.

Non avevo un rapporto speciale con lui, ecco come mai sono rimasto stupito quando ieri mattina il campanello di casa mia ha cominciato a squillare, svegliandomi. Nel mio letto una ragazza dai capelli rossi mi ha dato una spinta borbottando un apri veloce, voglio dormire, ed io mi sono alzato strofinando le mani sugli occhi infiammati dalla stanchezza. Ho detto arrivo, arrivo, mentre ero nel corridoio, ma il campanello non ha smesso di suonare. Pensavo che fosse un mio amico imbecille a cui fosse successa una delle tante stronzate che accadono ai miei amici imbecilli, ma ho avuto un vero e proprio balzo al cuore e innumerevoli brividi freddi su per la schiena quando ho trovato di fronte a me due poliziotti in divisa e con l’aria scocciata che mi stavano chiedendo se fossi per caso Mazzanti Ferruccio. Che succede? Puoi venire con noi?

Mi sentivo come in un film. Ma venire dove?

La loro risposta è stata un laconico al cavalcavia. Era una risposta così surreale che sono tornato in camera, mi sono vestito e sono uscito con loro, sono salito sulla loro volante, non ho protestato quando hanno acceso la sirena e li ho ascoltati mentre discutevano del regalo che uno dei due aveva comprato per suo figlio. Si trattava di una di quelle macchinine a pedali per bambini da mettere in giardino. A loro non gliene fregava niente di me ed io ero troppo teso per non ascoltare ogni loro singola parola. Non so perché non avevo il coraggio di chiedergli maggiori informazioni. Avevo paura che qualsiasi cosa potessi dire sarebbe stata usata contro di me.

La volante procedeva per la strada in direzione della periferia. La loro guida era estremamente veloce, nonostante discutessero come se niente fosse. Non rispettavano i semafori e azionavano la sirena ogni qual volta ritenessero opportuno mettere al corrente pedoni o automobilisti della loro fretta. Proseguirono in direzione dell’autostrada e la imboccarono. Io sentivo i muscoli delle mie spalle rigidi e con terrore guardai il paesaggio scorrere via dal finestrino. Dopo due ore, vicino allo svincolo con Bologna, cominciarono a rallentare fino a fermarsi ai limiti di un cavalcavia, dove la strada era bloccata da altri poliziotti, ma anche da guardie del fuoco e ambulanze. I due poliziotti scesero dall’auto e mi chiesero di seguirli. Ma cosa stava succedendo? Li seguii, muto e terrorizzato. Il cielo  sembrava così stupidamente nuvoloso. L’asfalto era troppo grigio. I due poliziotti mi accompagnarono oltre il blocco della polizia e mi indicarono un uomo che stava seduto a cavalcioni sulla protezione. Sotto di lui a centotrenta chilometri orari le automobili sull’A1. Ti vuole parlare, mi ha detto un poliziotto.

Chi?

Lui. Indicandomelo.

Mi incamminai finché non riconobbi Marco, là, mezzo a penzoloni, Marco il Vagabondo che viaggia su e giù per l’Italia.

Marco, gli faccio, che fai Marco?

Lui mi sorrise sentendo la mia voce e riconoscendomi. Mi chiese se mi andava di sedermi accanto a lui. Mi issai sulla grata e una volta che mi sentii in una posizione di sicurezza gli chiesi che c’è che non va?

Nulla, mi fa lui, nulla di nulla, volevo solo contemplare con te la bellezza dell’autostrada prima di fare hop.

In che senso Hop.

Nel senso Hop e poi salti giù.

Marco, ma perché vuoi saltare giù.

Io non voglio saltare giù.

E allora chi farà Hop.

Marco mi osservò con uno sguardo pieno di desiderio. Sembrava come quando parlavamo di donne. Un lieve vento mattutino gli scompigliava i capelli lunghi e sporchi. Sotto di noi le automobili viaggiavano ignare verso qualsiasi posto.

 

Un racconto di Ferruccio Mazzanti

Illustrazione di Alessia Arti

 

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