Quello che ci rimane

Quando mia madre mi dice di fare qualcosa, io la faccio. Nessuna domanda, proprio come dice lei.

 

Ecco perché ero lì quando il dottore le ha detto che non era più ai primi stadi, che era solo questione di tempo prima che i suoi ricordi scivolassero via come sabbia tra le dita. Ecco perché non ho detto una parola per l’intero tragitto di ritorno a casa, mentre la guardavo serrare la mascella. Ecco perché quando sono uscita dall’auto e lei mi ha stretto il polso fino a lasciarmi un’impronta a forma di braccialetto, e mi ha detto: “Devi salvarli. Tutti”, io ho detto ok.

 

Sono in piedi su un lenzuolo di plastica steso sul tappeto, e mia madre è seduta di fronte a me su una vecchia sedia di legno. A lei non dispiaceva sporcarsi, ha detto. Ai miei piedi c’è una scatola, quella coi divisori tutti etichettati per persona e anno, organizzati per poter trovare tutto più facilmente, far scorrere le dita sulle linguette e tirare fuori chiunque o qualunque data io volessi.

 

Poco fa ha preso qualcosa, qualcosa che non mi ha mostrato, lo ha inghiottito con mezza bottiglia di vino e ora è svenuta. Le inumidisco la testa con dell’alcol, gliela chino all’indietro e poso il bordo del bisturi contro la sua pelle, appena dentro il cuoio capelluto, proprio come mi ha mostrato. Così nessuno vedrà la cicatrice, ha detto. Premo poco più forte, abbastanza da vedere il primo schiocco di sangue e mi tiro indietro, le mani sullo schienale della sedia, poi mi sporgo in avanti, respiro forte.

 

Mi ha detto lei di farlo, ripeto più volte a me stessa. Mi ha detto lei di farlo.

 

Risucchio l’aria e inghiottisco il resto del vino.

 

Non è il sangue che mi spaventa. Non è il separarsi della pelle o il creparsi delle ossa. Quello che mi spaventa è cosa troverò una volta che sarò dentro, cosa ha nascosto nei recessi della sua mente. Ho paura delle cose che non sarò mai in grado di scovare.

 

Mi muovo velocemente, cercando di mantenere l’incisione il più dritta possibile. A lei è sempre piaciuto che tutto fosse pulito. Infilo la punta del bisturi nel cranio e spingo con il palmo della mano. Una volta. Due volte. Poi sono dentro, proprio così, e faccio un profondo respiro prima di cominciare a estrarre.

 

Attraverso i tessuti molli e le sinapsi infuocate, c’è un’immagine di lei, molto più giovane. Un matrimonio a Las Vegas. Segreto. Lei che indossa una gonna denim e un sorriso a trentadue denti. Lui che si è messo una maglietta da turista e una macchina fotografica legata al collo. Tutti e due sono colmi di gin. Lo estraggo delicatamente e lo poso nella scatola ai miei piedi.

 

Vedo mio fratello, il numero sette stampato sulla maglietta, dopo aver fatto il suo primo goal. Lei in tribuna sotto un riscaldatore e una coperta a maglia, così orgogliosa, con la voce roca per il tifo.

 

Un viaggio nella Repubblica Domenicana, con l’acqua dell’oceano fino alle caviglie e il sole che fa splendere i suoi capelli rossi.

 

Lei che ride, suo padre che canticchia, si abbracciano l’un l’altra posano per la fotocamera. Nessuno dei due sapeva che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero ballato insieme.

 

Estraggo ogni ricordo, uno per uno, e lo metto via. La scatola è piena, tutte le sezioni eccetto una si riempiono rapidamente e si riversano nelle successive.

 

Sono nel panico.

 

La disperazione si accumula mentre cerco i passaggi del suo cervello eccetto che per uno. Sono diventata meno delicata, più egoista. Comincio a chiedermi se ne esista qualcuno, se forse lei non sia già completamente dimenticata di me.

 

Poi trovo il mio, un intero angolo solo per me, ed è tutto ciò di cui ho paura.

 

Io con le braccia incrociate a una cena di famiglia, provocatoria e arrabbiata e polemica; lo stridio delle gambe della sedia contro il vecchio pavimento di legno qualche momento prima che lei sbattesse la porta di camera sua.

 

Io impassibile che mento su chi è venuto, perché tutto l’alcol era sparito.

 

Io con le lacrime che scendono lungo il mio viso quando le ho detto quello che è successo al nuovo suv che avevano comprato il mese prima.

 

Io in Messico con gli occhi spalancati, la mia spina dorsale che sbatte per terra mentre le sue dita mi stringono la mascella.

 

Io con il ragazzo sbagliato e il ragazzo sbagliato e il ragazzo sbagliato, non ascoltando mai e sempre fallendo.

 

Io sul marciapiede la sera prima del mio matrimonio, urlandole così forte da dover riprendere fiato.

 

Prendo in considerazione l’idea di lasciarli lì dentro, tutti loro, a marcire. Invece faccio quello che mi è stato detto di fare. Li rimuovo tutti con attenzione e li metto via con gli altri, assicurandomi di non lasciare dentro nemmeno un pezzo.

 

Poi il suo peso si sposta e lei scivola verso destra. La prendo in tempo, lasciando cadere l’ultimo ricordo per liberarmi le mani, ma la sua testa ciondola violentemente verso un lato, un rantolo sordo echeggia da qualche parte dentro di lei. Guardo dentro ancora una volta prima di chiuderla ed è allora che la vedo: una piccola scatola si è staccata da un angolo dimenticato. Sollevo il coperchio e tutto si riversa, raccogliendosi alla base del suo cranio. Metto a posto il contenuto e porto la mia mano alla bocca, il suo sangue mi macchia la guancia.

 

Sono io a sei anni, che indosso un vestito da principessa che lei stessa ha cucito, quello con i drappeggi e le rose. Io che mi rifiuto di toglierlo, anche quando dormo, e il più grande sorriso sul mio volto.

 

Sono io a tredici anni, che piango per un cappuccino ghiacciato nel nostro café preferito la prima volta che un ragazzo mi ha spezzato il cuore, il gloss color Big Babol che macchia la cannuccia. La sua mano sulla mia, a dirmi che andrà tutto bene.

 

Sono io all’aeroporto che mi allontano da lei, trasportando una valigia che contiene tutta la mia vita, una sensazione di vuoto allo stomaco.

 

Sono io in piedi davanti a lui e lo sguardo nei suoi occhi quando mi vede, e lei sa che deve lasciarmi andare.

 

Sono io solo qualche ora dopo, cullata tra le sue braccia nell’oscurità e avvolta in modo sicuro. È la prima volta che canta per me, e la sua voce mi calma anche adesso.

 

Li raccolgo tutti nei miei palmi e li impilo nella scatola, la sollevo e la metto dal lato opposto al suo. Questi, lo so, non andranno con lei. Ne ho bisogno di più io.

Inspiro a ogni punto di sutura. Controllata. Decisa. Quando finisco, massaggio con altro alcol e le sistemo i capelli, in modo che sia presentabile, in modo che nessuno lo sappia. Quando ho asciugato tutto il sangue, mi chino e sfioro con un bacio la sua fronte, le mie lacrime le impregnano i punti.

 

 

Un racconto di Linsey Morandin

illustrato da Michele Antolini

Traduzione di Sara Valente

Revisione di Davide de Capitani e  Dar’ja Melòfora

One thought on “Quello che ci rimane

  1. Stupendo soprattutto per chi ha un familiare con i medesi problemi. È trammatico allo stesso tempo se pensi che da adulti i ricordi che lasciamo ai genitori sono urla e incomprensioni piuttosto che sorrisi e abbracci.

Lascia un commento