Policicchio per Ceccanti, Vanità

Memoriale

Ogni settimana la donna portava dei fiori dove era morto suo figlio.

Era un albero alto e frondoso, allineato come gli altri lungo la provinciale. Suo figlio ci si era schiantato con la macchina tornando sbronzo dalla città e da quel momento, prima di andare al cimitero, la donna aveva sentito la necessità di passare a lasciarci dei fiori. Quindi aveva portato la sciarpa della sua squadra preferita e l’aveva avvolta attorno al tronco in modo da creare una tasca dove infilare foto, riviste o lettere.

La cura impiegata in questa sorta di memoriale lo faceva distinguere dagli altri, più discreti e meno costanti. Infatti la donna aveva continuato a portare oggetti e a cambiare i fiori molto più a lungo delle altre persone colpite da un lutto stradale.

In autunno, quando pioveva di più, e in inverno, quando gelava, proteggeva i fiori in morbidi cellophane trasparenti, lavava la sciarpa una volta al mese e si premurava che il muschio non ricoprisse per intero la corteccia.

Le decorazioni stupivano i passanti che provavano una certa pena di fronte a tanta tenacia.

Col tempo la donna aveva messo sempre più impegno nella sua opera, all’insaputa del marito che certamente avrebbe disapprovato scuotendo la testa. D’altro canto, lui stesso si era gettato a capofitto nel lavoro vincendo premi aziendali e finendo per guadagnare sempre di più.

La donna usava i suoi strumenti da giardinaggio per tenere pulita l’area delle radici e per tagliare i rami spezzati e i ributti. Aveva anche pensato di incidere sulla corteccia le date di nascita e di morte di suo figlio, ma poi le era dispiaciuto per l’albero.

Aveva scoperto che l’albero era un tiglio e in primavera si attardava sotto alla sua ombra, annusando il profumo di quei piccoli fiorellini gialli dall’aria smorta e dalle qualità calmanti.

Ci volle un po’ perché trovasse giusto e naturale andarci ogni giorno, tralasciando invece di andare al cimitero, un luogo sovraffollato di morte. Allora rimaneva seduta vicino al memoriale, magari nelle ore in cui il traffico scemava e il sole terminava la sua parabola, e leggeva a voce alta delle poesie che l’avevano commossa, condivideva i suoi pensieri o soltanto i fatti salienti della giornata.

 

Quando un altro incidente portò l’attenzione sul chilometro 127 la provincia stabilì il taglio degli alberi fra cui quello della donna che rimase abbracciata al tronco finché due uomini vestiti di arancione non la trascinarono via di peso. Le diedero indietro la sciarpa e le foto e le intimarono di andarsene.

Prima di segarlo alla base lo scapitozzarono.

L’indomani la donna tornò dov’era stato il memoriale, ripulì dalla segatura e contò i cerchi dentro al tronco.

Sempre senza dire nulla al marito prese un appuntamento con l’assessore responsabile della messa in sicurezza del verde pubblico.

Il legname, le disse, era destinato al mobilificio nella zona industriale.

Nonostante i cartelli la donna si perse tra le strade interne della zona industriale, un labirinto di capannoni e depositi di stoccaggio da cui entravano ed uscivano muletti carichi come formiche.

Quando arrivò al mobilificio chiese a un operaio se era arrivato nei giorni scorsi del legname di tiglio che la provincia gli aveva venduto. L’operaio, vedendola ben vestita, mandò a chiamare il capo, un uomo alto e bruno che si fece avanti poco dopo sfilandosi i guanti con solerzia.

La donna gli spiegò la situazione e l’uomo le disse che effettivamente era arrivato del legname di tiglio e che era entrato in lavorazione solo il giorno prima.

– Certo – aggiunse sorridendo – sarà difficile trovare il legname proveniente da un albero in particolare.

La donna allora gli chiese se poteva entrare a dare un’occhiata, che l’avrebbe riconosciuto lei.

L’operaio rivolse al cielo i palmi delle mani mentre il capo lo guardava da sopra la spalla della donna.

– Signora, cosa vuole che faccia, ormai sarà entrato in qualche armadio.

La donna non sembrava voler cedere. Dopo un attimo di pausa il capo del mobilificio aggiunse:

– Ok, lasci fare a me – e rientrò nel capannone.

Quando uscì teneva sotto braccio una lunga mensola di legno chiaro.

– È il massimo che ho potuto fare – disse porgendogliela.

La donna infilò una mano nella borsa e l’uomo le disse che non gli doveva nulla e non importava, ma la donna tirò fuori soltanto le chiavi della macchina e dopo che ebbe caricato la mensola se ne andò senza salutare.

 

La prima mattina disponibile, un sabato, il marito montò la mensola nella vecchia stanza del figlio con l’intenzione di farne uno studio e di voltare pagina una volta per tutte.

Intanto la donna aveva iniziato a perdere i capelli. Li radunava in ciocche e li tagliava ogni settimana fino a mantenersi una pettinatura niente affatto vanitosa, una specie di caschetto arruffato.

Trascorreva gran parte del suo tempo nello studio, in silenzio, dopo aver disposto con cura le ciocche sulla mensola vuota e profumata di legno fresco.

Quando il marito passava, con i suoi abiti firmati, si affacciava e scuoteva la testa facendo tintinnare le sue collane d’oro.

 

Un racconto di Giovanni Ceccanti

Illustrazione di Angelo Policicchio

 

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