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Confessionale

«Mi benedica padre perché ho peccato.»

«Il Signore sia nel tuo cuore, perché tu possa pentirti e confessare umilmente i tuoi peccati.»

«Amen.»

L’uomo dall’altra parte della grata tace, e così faccio anche io. Se c’è una cosa che ho imparato, in dieci anni di missione in questa parrocchia e trentacinque di vita nel mondo, è a godere del silenzio. Me l’ha insegnato mio padre: un giorno mio fratello è morto, e mio padre da allora ha smesso di parlare. Il silenzio ha iniziato a crescere e gonfiarsi, occupando ogni angolo della nostra casa, come fuoco che inghiotte e consuma.

«…non ce la faccio più.»

L’uomo dall’altra parte della grata inizia a parlare. Questo è il problema di godere del silenzio, mi disse mio padre durante la nostra ultima discussione, prima che entrassi in seminario e uscissi definitivamente da quella famiglia: Se ci stai troppo bene, non potendolo colmare con le parole, finisci con il riempirlo di pensieri. Le prime parole dopo quasi sei anni di mutismo. Le cicatrici sulle mani si raggrumavano al centro del dorso e fra le dita, tendendo la pelle sottile in due stelle sghembe.

«Perché?»

«Gliel’ho detto, padre. Il segreto. Non ce la faccio più. Ho perso tutto. È tutta colpa mia. Solo colpa mia.»

«Sono qui. Ti ascolto.»

«Lei però mi deve promettere una cosa.»

Lo sento agitarsi, respira veloce con la bocca, e il suo fiato riempie il mio spazio nel confessionale di una puzza di stantio e denti marci. Mi costringo a non voltarmi, non voglio mai guardarli in faccia. Ho paura di riconoscerli nel mondo reale. Se tutto quello che so di loro sono i loro peccati e le loro voci, posso illudermi di non sapere mai per certo se chi mi troverò davanti è l’uomo che ha tradito la moglie, o l’amante che l’ha ucciso. L’uomo ha la voce roca, avrà non più di 70 anni. Quanti anni avrà mio padre, oggi?

«Cosa dovrei prometterti?»

«Che mi assolverà.»

«Vuoi raccontarmi cosa è successo?»

L’uomo resta di nuovo in silenzio. Poi inizia a parlare.

«Ho fatto del male alla mia famiglia».

Mi sistemo meglio sulla panca.

 

Mio fratello mi spiegava quello che si poteva o non si poteva fare, ma io non gli credevo. Non gli credevo perché lo vedevo diverso da me, diverso da tutti quelli che conoscevo. Aveva gli occhi grandi e le ciglia lunghe e nere, ma non era per questo che era diverso. Era diverso perché diceva di amare Dio.

«Quindi sei un finocchio», gli dissi un giorno.

Lui si mise a ridere, poi aggiunse: «No, non è proprio così. È diverso».

Ma questa diversità non me l’ha spiegata mai.

Si chiamava Giuseppe e aveva 23 anni quando è morto.

 

Il giorno prima della sua morte eravamo sul tetto del palazzo, fra i panni stesi della signora del quinto piano. Mi piaceva il tetto, perché non c’era nessuno e c’era vento, e perché c’era lei. Lei si chiamava Emilia, aveva i capelli scuri fino alla schiena, gli occhi lunghi e il naso dritto. Io salivo sul tetto dopo la scuola e mi sedevo a guardarla mentre era in camera o quando era al bagno. Mi andava bene in ogni caso, perché era sempre mezza nuda.

Sul tetto ci andavo anche con mio fratello, da quando se n’era andato di casa. Per nostro padre era inconcepibile che proprio lui, il suo primo figlio, e dunque quello che avrebbe ereditato l’attività di famiglia, rinunciasse a tutto. Un padre già ce l’hai, gli diceva. Ma mio fratello non tornò mai sulla sua decisione, né a casa. Tranne quando papà era via, e allora passava a salutare la mamma; quando finiva con lei, mi raggiungeva sul tetto.

Quella mattina eravamo seduti fra i panni stesi, le lenzuola umide che ogni tanto colpivano il viso, quando lei ha aperto la finestra. Era in accappatoio.

Ho guardato Giuseppe, l’ho visto aprire la bocca. Poi si è alzato di colpo.

«Andiamo via».

«Perché?»

«Perché non possiamo stare qui».

«Io voglio guardarla».

«Non puoi. È peccato».

«E che succede se uno fa peccato?»

«Poi si brucia all’inferno». Ha guardato un’ultima volta verso la finestra, poi mi ha strattonato.

Il giorno dopo, è morto arso vivo. Un incendio divampato nei locali della chiesa, proprio nella stanza in cui stava lui. Svenne per il fumo, e il fuoco fece il resto. Fu nostro padre a trovarlo. La mattina avevano avuto un brutto litigio, di nuovo per la sua decisione di farsi sacerdote, ed era tornato a cercarlo, chissà se per fare pace o se per litigare ancora. Papà disse che vide le fiamme, sfondò la porta e lo trascinò fuori. Il corpo era coperto di ustioni, il viso un’unica piaga. Giuseppe riprese conoscenza, pianse sangue e sale, poi morì.

La polizia non ha mai accertato le cause dell’incendio.

Quel giorno avevo 13 anni e la mia vita cambiò di colpo: papà non fu più nostro ma solo mio. Smise anche di parlare, e quando non era fuori per lavorare se ne stava seduto in poltrona a osservare le sue “mani di stelle”, come le chiamava la mamma. Corsi in chiesa a confessarmi per tutte le volte che avevo spiato Emilia. Dopo l’atto di dolore, giurai che sarei diventato prete come lui.

 

«Cosa hai fatto alla tua famiglia?»

«Li ho uccisi. Tutti e tre.»

«Continua».

«I miei figli. E mia moglie».

«Perché l’hai fatto?»

«Lui… ha scelto un’altra famiglia. Ma ce l’aveva già. Aveva noi. Aveva me. Non aveva bisogno di un altro padre.»

Non so cosa dire e non mi giro. Non voglio che continui, chiudo gli occhi, come se così potessi chiudere fuori ogni cosa.

Invece va avanti. Stringo più forte le palpebre, finché non arriva: Perdonami, ti prego.

L’uomo si prende la testa fra le mani, io mi volto, ed eccole lì: due stelle rosa, lucide e sottili.

Giuseppe.

 

Un racconto di Giulia Mazza

Illustrazione di Alessia Arti

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