Dieci scalini, quattro passi, il congelatore

 

A sessantanove anni suonati succede che le ossa non reggano. Femore rotto.

A Eurelmo lo dissi subito: questa mattonella balla, va sistemata. Ma l’ha lasciata lì, zoppa, come me. Gliel’ho detto tre anni fa, il giorno del trasloco.

La casa, quella dove abitiamo ora, è una villettina in una schiera di villettine. Cucina, soggiorno, due camere, giardino, veranda, seminterrato e garage. Vicini simpatici e attempati, come noi. A parte una famiglia con due bambini che litigano per qualsiasi cosa. E il loro gatto, Micia, che mi piscia sulle ortensie.

L’idea era quella di passare una vecchiaia tranquilla, bere un bicchiere di vino sul portico la sera e giocare a Burraco. Non abbiamo figli, non abbiamo nipoti, da quando è morta Penelope non abbiamo nemmeno un cane.

Eurelmo lo penso a quarant’anni. Come se i trentacinque successivi non gli avessero cambiato né la faccia né la tempra. Moro, viso liscio, occhi accesi, mani grandi. Mi chiamava Fiore, mi svegliava con l’orzo nella tazza di smalto blu. Non mi ha mai fatto lavorare un giorno, si ricordava le mie pasticche e la bustina di Peptazol prima dei pasti. Il sabato andavamo a cena fuori.

La casa l’ha scelta lui, perché qui c’è il mare. La paga lui, con la pensione. L’ha chiamata Villa Fiore, per me.

Prima di rompermi il femore sulla mattonella ballerina, scendevo di sotto, dieci scalini, poi quattro passi, arrivavo al congelatore, mi ci appoggiavo sopra e glielo dicevo guardando la porta tagliafuoco del garage: che fregatura infame che mi hai tirato, caro mio.

Poi tornavo di sopra, sgomenta.

Sono la seconda moglie. La prima vive a Milano. Dico moglie, ma non ci siamo mai sposati. Venticinque anni insieme fanno un matrimonio. Io la penso così.

In ospedale mi è venuta a trovare la signora Lucilla. È vedova da quattro anni e deve trovare un modo per riempirsi le giornate. Fiorella, come stai? Quando ti rimandano? Se vuoi, vengo a casa a darti una mano durante la convalescenza. Anzi, vengo. Senza discussioni.

Lucilla è più vecchia di me e non ha mai niente da fare. Come metto il naso sul portico, appare. Traccheggia anche mezz’ora con frasi di circostanza sul tempo e sui fiori. Roba che mi fa invecchiare di un lustro ogni volta. Allora la invito, almeno la smette. Vuoi una limonata? Il tempo di finire la frase che è già seduta, ma continua con una serie infinita di cerimonie. Non ti voglio disturbare, se insisti, se non è troppo impegno. E si piazza nel mio giardino a pomeriggi interi. Va anche bene, mi fa compagnia. La verità è che a lei la limonata non piace per niente. Io la faccio aspra, senza zucchero. Allora per buttarla giù mi chiede il ghiaccio. Così l’annacqua.

Dieci scalini, quattro passi, arrivo al congelatore. Mi sta bene questa manfrina, così parlo con Eurelmo. Caro mio, guarda che fine. Stai rintanato qua sotto come un poveraccio, a passare le giornate con quell’occhio morto, sempre sbarrato. Che darei per vederti drizzare sulle gambe. Quattro passi, dieci scalini e la faresti finita di vivere come un clandestino. Poi prendo una scodellata di cubetti e li porto a Lucilla. A dopo amore mio, dico.

Lucilla non se lo immagina nemmeno che qua sotto c’è lui. A parte il giorno del trasloco, non si è mai fatto vedere.

All’ospedale mi hanno detto che devo tenere la gamba stesa, anche se sono senza gesso. Lucilla mi gira intorno di continuo. La sera, quando il caldo allenta quel po’ per non morire sciolti, mi porta a fare un giro in sedia a rotelle. Parla. Parla. Parla. I nipoti, i figli, la sorella, il marito morto, pace all’anima sua. Non si cheta mai. Però mi fa le faccende, cambia le lenzuola, fa in modo che sia sempre pulita.

Ci sediamo al tavolino del portico. Ti ho portato una sorpresa, dice. Tira fuori un mazzo di carte, una bottiglia di limonata calda come il piscio di Micia.

Dopo la prima mano, Lucilla si alza. Torno subito, dice. Mi arriva tutto come una fucilata. Dolore, tristezza. Eurelmo che scende i dieci scalini. Eurelmo che ne fa solo sei, poi cade. Eurelmo steso sul pavimento. Occhi aperti, marroni come la terra. Un braccio lontano, uno sepolto sotto il suo corpo. La camicia grigia. Eurelmo. Eurelmo. Io che piango seduta accanto a lui. Le scatole del trasloco ancora da sfare. I fogli del mutuo firmati da due giorni. Le carte da Burraco. Eurelmo, accidenti a te. Lo giro a pancia su. Sul viso non ha più niente. Ci incollo sopra la sua faccia di venticinque anni fa. Eurelmo, marito mio, ma non sono sua moglie. La pensione per pagare la casa è morta insieme a lui. La daranno a quella vecchia che sta a Milano se gli faccio il funerale. Lo sollevo. Cadiamo entrambi. Lo bacio. Eurelmo, Eurelmo. Il congelatore è vuoto. Prendo la poltrona. Lo metto seduto. Faccio un respiro. Piango ancora un po’. Maledetto te. Accidenti a te. Apro il congelatore. Salgo con una gamba sulla poltrona, faccio leva. Il peso di Eurelmo. I pantaloni strappati di Eurelmo. Le scarpe. Gli tolgo le scarpe, sfilo la fede. Che spregio mi hai fatto, Eurelmo. Lo butto nel cassone. Fa un tonfo. Ci sta come un bimbo accartocciato. Piango. Il giorno dopo compro i piselli surgelati, i fagiolini surgelati, i cavoli surgelati, il merluzzo surgelato, dieci sacchi di ghiaccio. Lo sotterro. Buonanotte amore mio. Guardo la nostra casa e piango. Pianto le ortensie.

Lucilla non torna. Ascolto e sento. Dieci scalini, quattro passi, arriva al congelatore. Lo apre. Vuole il ghiaccio per la limonata. Poi urla.

 

Un racconto di Valentina Santini

Illustrazione di Giulia Canetto

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