Terra

Era stato tempo di pace, anni indisturbati che sembravano ricordi indelebili ma che adesso sfiorivano giorno dopo giorno.

I genitori le avevano spiate al mattino, nei letti vacanzieri dove ritrovavano i loro corpi avvolti nelle coperte, le gambe intrecciate nelle altre, testa e piedi in direzioni opposte. In quei momenti, distese e ammortizzate, sembravano cresciute l’una sull’altra.

Le avevano spiate altre volte: durante la condivisione dei giochi, della tavola, della vasca quando dovevano lavarsi, e quelle due coppie di adulti a volte si irritavano vedendole così. Perché non erano come tutti gli altri? Cosa c’era di tanto speciale in quelle due bambine per unirle meglio di quanto potesse fare l’amore?

Le madri di Clara e Nicole si erano conosciute in ospedale, durante il parto. La prima era stata sottoposta a taglio cesareo, l’altra aveva aspettato sedici ore con la testa della figlia tra il ventre e le mani dell’ostetrica. Le bambine erano arrivate insieme, separate soltanto dalla mezzanotte, e le loro madri le avevano accolte a braccia aperte, mutuandosi il sorriso dei congiurati.

Farle crescere insieme era stato naturale. Per le bambine si trattava di compagnia, per le madri di riuscire a trovare un appiglio sulla soglia della loro nuova vita. Certo che saranno felici, si dicevano le due donne, e i loro papà saranno bravi genitori. Non le faranno mai mancare nulla. Lo sai, e questo era il loro argomento preferito, che per gli uomini avere una figlia femmina è molto più bello che avere un maschio?

Nel tempo festeggiarono quel che dovevano, e più le donne diventavano madri, più le bambine si mescolavano fra loro. Si cercavano. Piangevano l’assenza dell’altra e parlavano soltanto fra loro.

– Non ho mai visto una cosa così – aveva detto la maestra Rossella ai colloqui di seconda elementare. – I loro sviluppi proseguono di pari passo. Tanto fa una, tanto fa l’altra. E se una delle due non capisce qualcosa è l’altra a spiegarglielo direttamente.

Le vacanze venivano programmate per le bambine, e anche se una delle due famiglie decideva di fare altro, insieme trascorrevano comunque una settimana di agosto nelle Marche, nel casale sulla cima di una collina da dove si vedeva il sole salire dal mare e tramontare nei campi a ovest. Quello fu il luogo della cementificazione. Nicole e Clara spandevano le loro identità in quello spazio al punto che dopo cena tutti crollavano stanchi, assorbiti da quell’unione costante e ferrea. Passavano il tempo esplorando il mare con i papà e chiacchierando in veranda con le mamme.

Quando compirono quindici anni fu naturale preoccuparsi. Le due –  grandi bambine con fianchi e seni – iniziavano a scontrarsi: la notte dormivano ancora insieme, ma di giorno una nuova quotidianità le teneva separate. Si irritavano a vicenda; non potevano credere che più il tempo scorreva, più si differenziavano. Se una diceva, pensava, o si comportava in modo diverso, allora l’altra l’assaliva incurante del dolore che provocava. Si sforzavano di tenersi unite attraverso il rimpianto, provando a imitare la vita degli adulti.

Nell’estate di quell’anno un ragazzo bruno e taurino, nipote di un contadino della zona, le avvicinò parlandogli di un fatto strano.

– Lo sapete cos’è una terra vergine?

Nicole fece segno di no, Clara si aggiustò la spallina del vestino sbuffando.

– È una terra che non è mai stata calpestata da nessuno. Vergine, per l’appunto.

– Ma non esistono più terre così – disse Clara, – ti pare che al giorno d’oggi esista un posto dove gli uomini non siano passati? Massù.

– Allora, visto che non mi credete, domani vi porto a vederla da lontano. Passo dopo pranzo.

Quella notte, coricandosi insieme, Nicole disse che sarebbe andata. Clara la ingiuriò con sarcasmo, tentando di non sembrare cattiva. Ribatté che lei non credeva a queste cose, che il ragazzo era uno che sparava cazzate. L’altra fece un ultimo tentativo di convincimento, ma si arrese. Allora Clara, che per tutto il tempo aveva evitato di piangere, si voltò dall’altra parte.

L’indomani, durante il riposino dei genitori, Clara uscì. Trovò il ragazzo che l’aspettava, e tenendosi a un metro dal suo fianco s’incamminò dando le spalle al mare. Nicole la tenne d’occhio fino a quando non la vide più. Si portò un dito in bocca, divorandone la pelle morta. Non sapeva cosa sarebbe stato della sua amica, ma non poteva ignorare la mano che le chiudeva lo stomaco.

Poco dopo, sui viottoli gialli e sterrati, tentò di indovinare la strada che potevano aver fatto. Scavalcò una collina, si guardò indietro per vedere se qualcuno l’aveva seguita. Il caldo le metteva fretta, e l’arsura dei campi pieni di cicale le stringeva le tempie facendole perdere il nesso dei pensieri.

Per primi vide i faggi, alti e ancora verdi, imperiosi nell’estate, e infine notò che sotto le fronde, tenuti al fresco dall’ombra, c’erano Nicole e il ragazzo. Sedevano su un campo verde, incolto, e i loro corpi schiacciavano l’erba turgida sollevando piccoli nugoli di insetti che si disperdevano subito dopo.

I due si parlavano vicini, o forse si baciavano. Clara non colse la differenza perché semplicemente non la vedeva. Nicole era attaccata al ragazzo proprio come lo era stata con lei per tutta la vita, quando prima di addormentarsi si bisbigliavano cose indicibili ma limpide. Pian piano il ragazzo mise una mano fra le cosce di Nicole, che si accostò e lanciò un flebile urlo.

Stordita, Clara mimò quel suono in silenzio. Chiuse gli occhi, poi li riaprì e li sbatté accogliendo tutta la luce del pomeriggio. Dentro di sé, in qualche luogo inesplorato, stava già dimenticando.

 

Un racconto di Riccardo Meozzi

Illustrazione Elisa Inverardi

Lascia un commento