Tre stanze di fine inverno

C’è un luogo nella memoria dove conservo i ricordi dell’amore più importante.

Il primo ricordo vive in una stanza dall’atmosfera asfittica, stantia. Una camera dall’aspetto bohémien, con un letto matrimoniale sfatto e un’antica toeletta in ferro battuto come comodino. Sul ripiano di marmo sottile libri e bigiotteria riposano indifferenti, sul letto ci sono io e una collezione di dischi. Di fronte un pianoforte a muro di legno scuro, sul pianoforte una chitarra. Io e lei appendevamo alle pareti color petrolio i nostri disegni e quelli degli amici. Una cornice vuota, senza quadro, e a fianco un dipinto, senza cornice. Sul pavimento bottiglie di barbera aperte e mucchi di vestiti. È una gabbia per belve feroci rassegnate, la nostra. Murata, sigillata. In questo luogo ho raccolto anni di gioie e nascosto altrettanti di dolori, che in tutto fanno sette. Seduto sul letto aspetto il tuo ritorno e di tanto in tanto vado a scostare la tenda di velluto per controllare il vialetto, lasciando passare una freccia di luce di un mattino di fine inverno. La freccia illumina la stanza, e il ricordo muta in un mattino di sette anni prima.

Era la tua casa, ed eravamo soli.

Avevamo passato la notte a fare un amore acerbo, in quello che sarebbe diventato il nostro letto, letto in cui maturai. Ci siamo svegliati al freddo, i caloriferi erano spenti e subito iniziarono i giochi. Scappavi, tendevi sempre a farlo, abituando il mio palato a quel sapore che oggi è curato a bicchieri di Montenegro, un effetto placebo. Volevi lasciarti cadere sul letto di tua madre, come per farle un dispetto. Ti ho seguita con ingenuo coraggio e ti ho fermata afferrandoti il polso, di fronte alla grande libreria in corridoio. Ti sei voltata, il silenzio era nostro compagno.

Avevi le punte dei piedi in equilibrio sul filo della corrente, lo so perché ho abbassato lo sguardo. Muovevi i piedi nudi, lentamente, come se il filo fosse percorso da una leggera scarica elettrica. Ipnotizzato da quel movimento ho rialzato lo sguardo solo dopo aver sentito il mio nome pronunciato sottovoce. Prima ancora di dirmi qualcosa i tuoi occhi già parlavano ed io terrorizzato ho capito che quello che stavi per dirmi era il tuo primo ti amo. Anche quello che stavo per ricevere era il primo ti amo, con te fu tutto una prima terrificante volta.

La nostalgia è distrazione, che addolcisce il lento trascorrere delle ore. Ingannarsi un po’ e non rovinare ciò che è stato. Suono di tasti neri e bianchi, di tazze di caffè e di bicchieri rotti, niente più. Scatta il gioco degli specchi e la freccia di luce diventa un torrente melanconico. Il suo passaggio risuona in quel corridoio dove noi ci amavamo per la prima volta, irradiando ogni oggetto. Tra questi una foto in bianco e nero, incorniciata e appoggiata sul pavimento a fianco alla libreria, nascosta da grandi fogli arrotolati che assomigliano a vecchi progetti, di case in grandi città, di convivenze e lauree.

Si libera un terzo ricordo.

Facevamo l’amore tra le lenzuola ancora tiepide di sonno e di trapunta, nello stesso letto, il nostro, ma in un’altra casa. Appesa dietro al letto quella foto in bianco e nero, rappresentava una donna in posa e un bambino, che con una macchina fotografica invisibile le scatta una foto.

Quando i nostri istinti si calmarono ci siamo accorti che cadevano fiocchi leggeri di bianco cielo. L’atmosfera lieve metteva a tacere anche gli animi più irrequieti. Ascoltavo il silenzio della domenica che colmava la città e ho detto: “Se la finestra fosse aperta potremmo allontanare le nuvole, sciogliere la neve”, ma con un gesto mi hai riportato al tuo fianco. La stanza era come un caldo utero, sacra come la domenica.

Ti ho accarezzato la pancia, risvegliando pensieri insoliti. Mi hai detto: “Se è vero che i bambini in grembo sognano, che cosa immaginano? I premurosi suoni della mamma e del papà? Le loro leggere carezze? Oppure le proprie manine, così piccole, così vergini”. La paura si è impadronita nuovamente di me. Di colpo i ricordi mi scivolano dalle mani e cadono a terra infrangendosi come bicchieri di cristallo. I cocci si mescolano rendendo impossibile distinguerli tra loro.

Ritorno alla prima stanza, quella che ho chiuso a chiave, quella che ha la forma della nostra ultima casa, dei nostri ultimi anni insieme. Ero seduto sul letto sfatto e mettevo in ordine una collezione di dischi, pensavo a tutto quello che ti avevo donato e a quello che avrei potuto perdere. Mancavi da una settimana, il letto era sempre lo stesso. Al tuo ritorno divenne il luogo in cui hai deciso che mi avresti lasciato.

 

Un racconto di Mattia Muscatello

Illustrazione di Alessia Arti

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