giudutta bertoni per trucco

FRAMMENTO POSTUMO N.33 – La parte morta della città

… libero Sascha esplorava la città e marcava il territorio.

Genova assomigliava a tutte le altre città del mondo, il vestito di un convalescente che un tempo pesava duecento chili e ora invece cinquanta, costretto ad arrangiarsi con quel che c’era in attesa fossero pronti i vestiti nuovi. Il regno dei morti, tanto più numerosi dei viventi in fondo, meno di un secolo prima, era viva sulla Terra più gente di quanta non ne fosse mai vissuta dall’inizio dei tempi, miliardo più miliardo meno.

C’erano tre modi per rapportarsi a tutte quelle case vuote. Molti, un primo tipo di individui, ne avevano paura e non vedevano l’ora che fossero abbattute e riciclate, non vi entravano e vi passavano vicino solo perché non potevano fare altrimenti. Non molti anni prima nei casermoni d’edilizia popolare anni ‘970, negli ipermercati del 2000 e nelle villette unifamiliari sparse nelle campagne si nascondevano Mostri e Replicanti, e veniva ancora naturale affrettare il passo con un piccolo brivido d’ansia. Soprattutto quelli che affrettavano il passo non riuscivano a dimenticare che i morti non erano andati in pace ma erano stati falciati da malattie senza cura né diagnosi, dalla fame che si credeva atavica e superata, da oscuri conflitti in cui era difficile distinguere l’amico dal nemico. Non riuscivano a dimenticare che loro stessi avevano dovuto uccidere per non essere uccisi e lasciar morire per continuare a vivere.

Altri esploravano per motivi utilitaristici. Le priorità del Partito e della Fratellanza, approvate da tutti e comuni a tutti i  governi del mondo, erano il recupero e risanamento della terra, del mare e del cielo, la stabilizzazione del clima, il restauro di flora e fauna, la ricostruzione delle infrastrutture, la rigenerazione del parco umano, la rialfabetizzazione della società, la lotta alle epidemie e la sopravvivenza della specie in genere – . Se si aggiungevano obiettivi più lontani come l’unificazione mondiale e l’esplorazione del cosmo si impegnavano molte generazioni a venire: la produzione di beni di consumo non era proprio la prima priorità e le risorse erano quel che erano. Benché il Partito favorisse l’artigianato commerciale la parola d’ordine era ancora il fai da te; il riciclaggio e il bricolage di tutto quanto si poteva trovare in giro erano consentiti e approvati.

Altri ancora, e fra questi Sascha, esploravano per esplorare. Passavano le ore libere vagando di appartamento in appartamento, raccogliendo i frammenti di vite passate, ricostruendo vite anonime, momenti di gioia, tracce di violenza, oggetti desueti, mode morte, tecnologie obsolete, certificati scaduti, documenti incomprensibili, monete fuori corso, icone dimenticate. Talvolta c’era la pietà, talvolta il rimpianto, talvolta la curiosità, talvolta il disgusto in comune con quanti evitavano le case dei morti gli esploratori provavano una sorta di senso di colpa per essere sopravvissuti.

Nella cantina della Villa aveva trovato una pesante bicicletta nera. Katherine gli preparava un thermos di the e un panino col formaggio e nel primo pomeriggio – tendeva a rimanere a letto fino a tardi – Sascha partiva.

Genova assomigliava a tutte le altre città del mondo ma, come tutte le altre città, non assomigliava a nessun’altra.

Stava lunga distesa sulla Riviera, chiusa fra il mare e i monti tanto che, negli anni della Stupidera, si trovavano quasi in centro cose che altrove  ne erano ben lontane, come lo stadio di calcio, i cinema multisala, i centri commerciali e l’aeroporto. Genova era stata costretta ad arrampicarsi sulle colline – tanti palazzi avevano due ingressi, uno davanti in basso e uno dietro parecchio più in alto. Verso la cima delle colline, dominate da santuari, forti e case popolari, salivano strade strette e tortuose, ascensori fermi (eccetto quello di Castelletto), funivie arrugginite e creuze di mattoni rosse, le pareti ruvide ricoperte di cocci di vetro e rampicanti. Dal grosso corpo centrale della città, raccolto attorno al pietroso centro storico, si protendevano tentacoli verso le coste e i varchi nei monti, lungo il Bisagno e il Polcevera o risalendo verso Apparizione e Bavari. Per quanto i genovesi avessero sofferto, come tutti, la città era rimasta relativamente intatta, a parte i danni dello tsunami del 2073 e la normale decadenza del cemento armato. Le epidemie, la carestia, la siccità, il mare inaccessibile l’avevano svuotata e inaridita ma non distrutta e con la pace ed il ritorno della pioggia aveva cominciato a rinascere:il bello del trovarsi ai margini della Storia.

La maggioranza dei genovesi viveva in centro, fra Piazza della Rivoluzione, la Stazione Principe, Piazza dei Consoli, Corso Montaigne e Albaro; poche migliaia vivevano nei quartieri vicini – Sampierdarena, Marassi, Quezzi, San Fruttuoso, Quarto – e lungo la costa, zone in cui i palazzi abitati, a volte anche da una sola persona, si alternavano a quelli vuoti e destinati al riciclaggio. Cinquecento persone abitavano a Nervi, al limite orientale della città. Praticamente nessuno abitava lungo i fiumi e sulle colline, nei vecchi quartieri condannati – Rivarolo, Bolzaneto, Pontedecimo, Molassana, Struppa… Era così bello imparare i nomi dei posti, pensava Sascha. Le sue zone preferite erano quelle del medio levante, fra Quezzi e Quarto, dove i palazzi condannati erano contrassegnati da grandi X arancioni: il Partito locale aveva deciso di cominciare la rigenerazione urbana dal Ponente e ci sarebbero voluti anni prima che ci si potesse occupare di quella parte, oltretutto facile da raggiungere dalla Villa. Erano i quartieri condannati per i quali non ci si preoccupava di cambiare nome alle strade.

Quanta storia. Genova ne aveva avuta tanta e anche strana. Prima era stata una città commerciale con una grande flotta e colonie in tutto il Mediterraneo e famiglie nobili in guerra civile permanente. Poi  era diventata un grande centro finanziario – il primo grande centro dell’espansione capitalista, il prototipo di Amsterdam, Londra, New York e Hong Kong. Poi era diventata un polo industriale e aveva costruito acciaierie in riva al mare e fabbriche lungo i fiumi. Poi  aveva deciso di diventare una città d’arte turistica smontando le acciaierie, sostituendole con parchi e facendo del porto un salotto. Poi… Sascha non poteva fare a meno di notare un ritmo particolare nella storia dei genovesi. Altre città o erano abbastanza grandi da fare tutto o si fissavano a fare una cosa sola per tutta la loro storia. Genova invece ogni tanti secoli cambiava completamente. Genova era  una città frivola.

Un tempo  vantava uno dei più imponenti cimiteri del mondo, Staglieno: i vecchi genovesi, malgrado la loro fama di avarizia, non badavano a spese per la morte, un tratto molto apprezzato alla fine del XXsecolo. Purtroppo il cimitero monumentale era stato spianato nel 2062, in uno degli ultimi sussulti ideologici pro-vita dell’Unione Europea. L’idea era quello di sostituirlo con un parco dei divertimenti, ma come tante  intenzioni di quel regime non se n’era fatto niente. Un giorno o l’altro lo si sarebbe ricostruito – il Partito locale ci teneva molto – ma per il momento il principale cimitero dei genovesi, pieno di piccole tombe rosa e azzurre, si trovava sul mare, fra le palme di Cornigliano, dove un tempo sorgeva un enorme industria siderurgica.

Sascha cercava tracce di vita familiare. Non aver avuto una famiglia non lo rendeva certo unico, era la regola per la grande maggioranza dei sopravvissuti. La Famiglia come istituzione si era disintegrata lungo la gran parte del XXI secolo, ma ora che, faticosamente, si stava cercando di riprendere quel genere di vita le sue tracce nelle case degli altri  erano occasione non solo di nostalgia ma anche di insegnamento.

Nella maggior parte delle case la vita s’era fermata da qualche parte negli anni Trenta. Tutte le porte  erano spalancate e ben poche finestre avevano ancora i vetri. Migliaia e migliaia di mobili componibili in legno e plastica si decomponevano e si sformavano, dignitosamente, fieri della loro inutilizzabilità.

Se la cavavano comunque meglio dei miseri resti dei mobili intelligenti  (questo l’ho tolto perché mi sembra che c’è una contraddizione: sia i mobili componibili che quelli intelligenti sono degli anni trenta?), connessi direttamente sia alla Rete che al cervello dei loro proprietari, ora ridotti a scheletri arrugginiti. Negli anni Venti, soprattutto, si inventavano cose meravigliose: quelle due antenne di metallo storte un tempo avevano creato mondi, in cui nuovi umani che sarebbero rimasti per sempre giovani (povere stelline…) potevano in pochi minuti vivere più vite che un vecchio umano in 80 anni di vita lineare. Bastava dire qualcosa, bastava anche solo fare un gesto e tutto si metteva in ordine da sé. Ora però le voci si limitavano a echeggiare con un tono vagamente scazzato.

ll Sindaco, qualche sera prima, sul terrazzo della Villa in compagnia di una bottiglia di brandy, guarda caso è anche esperto di Urbanistica e Architettura: ‘… ma cosa vuoi che ci fosse a Genova… dopo la fine dell’Italia era rimasta una metropolina stitica di uno staterello satellite della Francia, la Repubblica Cisalpina, piena di vecchi… non c’erano soldi per fare niente, figurarsi una Brain City… prima c’era la Smart City, nulla più di un ufficio in Comune… ‘Pianificazione Strategica, Smart City, Innovazione d’Impresa e Statistica’… l’ufficio venne murato durante la fase critica dell’epidemia di Febbre Nera, qualche anno fa l’abbiamo riaperto e c’erano gli scheletri di sei impiegati, quattro donne e due uomini… cannibalismo, mi sa… sì, le macchine si guidavano da sé, come dappertutto, l’erba sintetica in Via XX Settembre, e chi poteva permetterselo si rifaceva la casa… l’acqua, la luce, il gas, chiaro, ma non è che poi fosse molto diverso da prima… a Parigi, ah, lì era un’altra cosa… ho fatto in tempo a vederla, prima che… ero molto giovane… no, questo non lo saprai mai… fine anni Venti, primi anni Trenta… la Cresta della Singolarità… e lì ogni cosa era tutt’un’altra cosa, luminosa, tentacolare, organica, olistica, cool… volavi per le strade a levitazione magnetica, ti tuffavi nelle piscine di dati… le macchine di luce, le nuvole scolpite dai laser… e naturalmente l’AI che faceva tutto, traducendo in azione i desideri dei cittadini prima ancora che venissero espressi… così non c’era nemmeno soddisfazione… e ogni tanto, si sa, qualcosa andava storto e un migliaio di persone si trovava con il cervello bruciato… capitava… il sogno della Città Immortale per Uomini e Donne Immortali… in attesa del teletrasporto… e intanto fantasmi accidentali dappertutto, specie in metropolitana… l’effetto Hobart… i sogni premonitori… la Casa della Vita che occupava lo spazio dove un tempo stava il quartiere di Belleville… i morti in attesa di resurrezione lisci come cera… quella qui a Genova era una cosetta da niente, carina però, dalla parti di San Martino, con le colonnine rosa e azzurre… sempre più facile uccidere a distanza… e naturalmente ci si accorse che le AI non erano malvagie ma semplicemente avevano interessi diversi dai nostri, sempre più incompatibili… zero senso dell’umorismo, prendevano tutto alla lettera… e poi i Blackout della Rete, il primo nel 2020, sempre più insicurezza… poi possedere un’AI non è la stessa cosa che possedere degli schiavi… quando  dopo il ’30 hanno cominciato a imperversare le epidemie… chiuso in casa a parlare con gli elettrodomestici… gli stessi elettrodomestici che odiavano i gatti e li ammazzavano… non s’è mai capito, questo odio fra l’Internet delle Cose e i gatti… Mostri e Replicanti non erano ancora così tanti… e poi s’è visto, la Singolarità è fallita ed eccoci qua… oplà, noi viviamo…’)

Più rari erano i resti di mobili più antichi, grandi armadi scuri dove i topi facevano nido nei vecchi maglioni o comodini ancora pieni di  bollette e contratti d’assicurazione, per non parlare degli onnipresenti tavoli di formica nelle cucine dai pavimenti ricoperti di cocci di piatti. Stanze dei ragazzi con letti a castello, gabinetti piastrellati, vasi da fiori vuoti, televisori a parete raggrinziti, ordinatori frantumati, lacerti di libri e riviste. Tante macchie che potevano essere sangue oppure no. Sullo stipite di una porta delle tacche con i centimetri della crescita di un bambino – 88 cm, 102, 115, 128. (questo lo trovo molto bello)

Decifrare tutti i segnali e gli indizi avrebbe richiesto una conoscenza della cultura di massa della Stupidera e del successivo Orrore che a Sascha mancava. Sulle pareti immagini sacre: Gesù Cristo, la Madonna, Padre Pio, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI,  Francesco I, lo sventurato Francesco II, ma soprattutto Alessandro IX, il Papa con i baffi, popolarissimo finché non ci si rese conto che era l’Anticristo. Oppure quadri di paesaggi marini e animali, poster di moto, gruppi rock, calciatori i cui nomi non gli dicevano nulla, foto di donne nude tristemente provocanti, ritratti di leader politici più o meno infami (molti di Benito Mussolini e del Presidente a Vita dell’Italia Redenta), riproduzioni di capolavori celebri comprate in qualche museo e tante, tante scritte con lo spray accumulate negli anni della Grande Moria – slogan d’odio politico o razziale, immagini di sangue e violenza, Mostri che mangiano uomini e appelli, date, imprecazioni, preghiere. Chicco è stato qui. Nessun dorma. Perché? Xke?. 15 agosto 2054. Tyson cuore Monika. In nomine Satana. Sto morendo. No rest for the wicked.  Dio mio perché mi hai abbandonato. Fanculo tutti. Ti amo. Ricordati di me. Addio. È finita.

Questa era la normalità. Poi, ogni tanto, si trovavano cose più rare, indizi di qualcosa, segni che resistevano all’interpretazione, che chiedevano espressamente di non essere interpretati. Le centinaia di bossoli arrugginiti in cima a un tetto di Corso Sardegna, lo scheletro di un cavallo in un appartamento all’ultimo piano di Via Ferreggiano, la montagna di migliaia di lattine di Coca Cola, Fanta e Sprite nell’ospedale in Via Donaver, quello con la statua dei bambini ciechi davanti all’ingresso,  i due asciugamani LUI e LEI dentro un cassetto di Corso Gastaldi, perfettamente piegati e con una piccola saponetta incartata sopra (e quanti nei decenni avevano aperto quel cassetto e lasciati intonsi i due asciugamani? Chi erano i due, usciti di casa dopo aver messo tutto bene a posto e mai più tornati? Cosa gli era successo?), il grande televisore piatto al plasma nell’appartamento di Piazzale Parenzo sul cui schermo frantumato qualcuno aveva attaccato un poster di un anime giapponese, Pokemon, piccoli mostri buffi e colorati, Mostri ‘simpatici’, se il concetto aveva un senso, e poi si era seduto sul divano a guardarlo, chissà per quanto tempo.

Sascha di regola non portava via niente. Però aveva l’idea di trovare una statuetta di porcellana che facesse compagnia al Detective Morente. Di frammenti se ne trovavano tanti ma pochissima porcellana era sopravvissuta intera al XXI secolo, nemmeno nella Villa se ne trovava una intera e al momento a Genova non ne producevano. Del resto, secondo lui, il fascino della porcellana stava proprio nella sua fragilità, che richiedeva anzi comandava d’essere protetta, un po’ come il fascino dei fiori stava nelle cure di cui avevano bisogno. In compenso di quell’odiosa plastica ce n’era dappertutto, ancora allegramente colorata, un vero insulto alla morte.

Finché un bel giorno trovò, nella sagrestia di una chiesa abbandonata a Quezzi, una statuetta quasi intera, caduta dietro una pila di vecchie copie di Famiglia Cristiana. Doveva essere cinese o forse era solo una cineseria: una donna in uniforme azzurra attillata, gli occhi a mandorla, gli stivali lucidi, la stella rossa sul berretto. Pareva una Guardia Rossa dei tempi di Mao Zedong: con un braccio salutava col pugno chiuso mentre con l’altro, perduto, probabilmente teneva una bandiera rossa di cui spuntava un pezzetto d’asta vicino allo stivale. Splendido, l’avrebbe messa sul comò accanto al Detective Morente, eternamente impegnato a cercare di sollevarsi dall’asfalto bagnato, e avrebbero parlato della guerra del 2070, difendendo cause e ragioni e, eventualmente, avrebbero fatto pace.

Così i giorni passavano, giorni di piacere e riposo e uva e canzoni, finché, il 3 Fruttidoro 2099, un giorno misteriosamente piovoso il Sindaco passò dalla Villa un po’ prima del solito…

 Un racconto di Stefano Trucco

Illustrazione di Giuditta Bertoni

 

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