A pezzi

È quasi mezzanotte, gli strumenti brillano sul ripiano d’acciaio. Le luci dei riflettori rimbalzano su bisturi, pinze, bacinelle e mi feriscono gli occhi. Capisco che il pubblico debba godersi lo spettacolo, ma devono per forza accecarmi? Neanche la sala operatoria era così illuminata.

Dopo due estenuanti ore di fenomeni da baraccone che si sono incendiati la barba, infilati oggetti appuntiti nel culo per farli uscire dalla bocca, suonati la cassa toracica a forza di schiaffi e pugni,  camminato sulle braccia perché privi di gambe e bevuto fusti di birra in un sorso, tocca a me.

Mi siedo sulla poltrona reclinabile, sistemo lo specchio appeso sopra di me, il mio addome riflesso in primo piano: è di un pallido abbacinante. Sento un vago mormorio di sottofondo, forse qualche applauso d’incoraggiamento. Faccio un paio di bei respiri e cerco di calmarmi, la mia pressione sanguigna dev’essere più bassa possibile. Non vorrei morire dissanguato alla trentacinquesima volta.

Guardo per un attimo davanti a me. Non ho mai visto tanta gente tutta insieme. Dovrei farmi prendere dal panico, invece mi rilasso, non riesco a non pensare a baretti da quattro soldi e ai sudici pub di periferia dove praticavo fino a poche settimane fa. Un po’ di pressione psicologica in meno e qualche birra in più tornano utili al momento di operare.

Però miseria, ho riempito uno stadio, tutte queste persone sono qui per vedere me. Per vedere cosa farò questa volta. E credo che in fondo in fondo sperino di vedermi crepare.

Chiudo gli occhi e inspiro. Li riapro e in prima fila vedo Sara.

Porco. Cazzo.

Espiro.

Non è mai stata d’accordo. Secondo lei avrei dovuto semplicemente continuare a operare. Tenere il posto in chirurgia, rinnovare l’abbonamento in palestra, bere un bicchiere di vino la sera, continuare a uscire con gli amici. Con i colleghi. Con Francesco.

Come se tutto fosse rimasto com’era, come se l’operazione fosse stata un completo successo e io non vedessi la sua mano che ancora stringe il camice, i mocassini costosi, le palpebre bloccate dallo scotch, che lottano per aprirsi e non ci riescono.

Ho provato ad ascoltarla. Ho continuato a operare, per qualche settimana. Sono andato un paio di volte in palestra. Ho iniziato a bere qualche bicchiere in più e a uscire un po’ meno.

Francesco non lo vedo da quando lavoravamo insieme. Forse c’è anche lui, infognato in qualche sedile dello stadio. Probabilmente è a casa da quel ripiego di sua moglie. E grazie a lui, io sono qui.

Ho sempre avuto la mano straordinariamente ferma, già all’università. Una delle cose che mi divertiva di più era ubriacarmi con gli amici e giocare a freccette, o sparare con un fucile ad aria compressa a qualche bersaglio nuovo; non li mancavo mai. Era una delle rare occasioni in cui mi piaceva fare il gradasso anche con Sara. Lei mi guardava con aria accondiscendente, sorrideva di traverso e si scostava quel ciuffo invadente dalla fronte, per potermi guardare negli occhi.

Sei un pagliaccio, rideva.

Lo sono quasi diventato.

Inizio a sentire caldo, e il silenzio nello stadio ha dell’impossibile, come se fosse stata risucchiata fuori da questo stupido catino tutta l’aria e non ci fosse più niente a trasportare i suoni. Quasi 40.000 persone trattengono il fiato. Sto per tagliarmi un metro di intestino a mente serena e sono l’unico che respira.

Sara mi guarda e vedo solo lei. Scuote la testa.

Perché sei dovuta venire?

La prima volta non fu un vero e proprio spettacolo, quanto piuttosto un’improvvisazione. Se non avessi avuto con me la borsa con i ferri e non so quanti bicchieri di vino in corpo, non mi sarei potuto tagliare un dito al bancone del bar per gettarlo in faccia a Francesco.

Che cazzo di problemi hai? continuava a chiedermi. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal moncherino e dagli schizzi di sangue.

Reggevo il bisturi con mano ferma, neanche la minima vibrazione. Le mie labbra tremavano mentre bestemmiavo contro Francesco chiedendogli come aveva potuto ucciderla, che io ero in grado di tagliarmi un dito e ricucirlo in uno schifo di bar, e lui non era stato in grado di salvarla. Forse gli ho chiesto se aveva bevuto anche quella mattina, non ricordo.

Sentivo le lacrime scorrere e il moccolo colare dal naso, ma le mie mani erano immobili, perfino quella mutilata.

Francesco teneva gli occhi sbarrati. Il sangue zampillava, io ridevo mentre lui provava a giustificarsi come un ragazzino beccato dai genitori a masturbarsi sulla foto della cugina.

Non c’era niente da fare, era un tentativo, un’operazione rischiosa, ho fatto del mio meglio, lo sai anche tu. Anch’io tenevo a lei. Più di quanto immagini. Non avevo bevuto.

Io sapevo solo che me l’aveva portata via. Alla fine, in un modo o nell’altro, ci era riuscito. Tirai fuori dalla borsa ago e filo e mi riattaccai il dito. Poi gli mostrai il medio, mentre ciò che rimaneva dell’indice sgocciolava e iniziava a gonfiarsi.

Uscii in strada, inspirai e mi accorsi che stavo meglio. Il dolore era calato lungo tutta la serata, avevo dimostrato ancora una volta che ero meglio di lui. Che io la meritavo. Per un istante ho avuto lei sotto il bisturi, e non il mio inutile dito.

Lì è iniziata la mia nuova carriera.

Sara non era mai venuta prima a vedermi. Non ho mai dovuto guardarla negli occhi mentre mi opero. Mentre cerco di non urlare. Mentre cerco di rimettere a posto i pezzi.

Vedo un brulichio di forme di vita alle sue spalle, una massa indistinta che ricopre lo stadio come formiche su un insetto morto. Le luci sono meno forti. Distinguo solo lei. Ha lo sguardo deluso ma comprensivo. Come quando provavo a farle una sorpresa cucinando la cena e mi ritrovavo a servirle hamburger di McDonald’s.

Mi scappa un sorriso e inizio a sudare. Tutte le trentacinque cicatrici che avvolgono il mio corpo prendono a pulsare. Stavolta non vedo lei sul tavolo operatorio. C’è Francesco adesso.

Afferro il bisturi. Mi trema la mano.

 

Un racconto di Luca Bianco

Illustrazione di Verin

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